Il futuro del mare di Stefano Navarrini il 8 Lug 2025 Non è il nome di un alieno, UNOC 3 è solo l’acronimo della recente conferenza indetta dall’ONU, questa volta a Nizza, per fare il punto sull’attuale degrado degli oceani. Molte le promesse e le dichiarazioni, sperando che alle parole seguano i fatti. C’era una volta l’oceano: una vera schifezza. Eppure in quel brodo primordiale, fatto fra l’altro di vari idrocarburi, amminoacidi, ammoniaca, vari gas vitali come ossigeno, azoto, anidride carbonica e vapore acqueo, più l’aiuto di qualche scarica elettrica e dei raggi ultravioletti del sole, da un agglomerato di molecole organiche nacque un primo tentativo di vita, ovvero LUCA: il nostro Last Universal Common Ancestor, probabilmente il nostro comune antenato universale, in altre parole una cellula capace di riprodursi e sulla cui genesi si possono solo fare ipotesi. I problemi che affliggono l’oceano rischiano di compromettere non solo la salute di un ambiente vitale per la nostra sopravvivenza, ma anche la bellezza di un mondo sommerso ricco di vita e di colore. Sommario La storiaL’importanza dell’oceanoLa situazione attualeL’intervento dell’ONUL’accordoUn ecosistema complessoLa plasticaLe possibili soluzioni La storia Quindi siamo nati più o meno 4 miliardi di anni fa, fra scariche elettriche e reazioni chimiche come dice la scienza, a meno che quella prima cellula non l’abbiano seminata gli alieni sperando che ne crescesse qualcosa di buono, o se preferite salvo che qualcuno al di sopra di noi abbia pensato di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza. Fatto sta che questa storia affonda nella notte dei tempi, ed anche più, mentre facendo un salto in avanti di qualche miliardo di anni arriviamo ad un presente che vede la Terra in un costante degrado ambientale dal quale non sarà facile uscire fuori, degrado che potrebbe anche portare all’estinzione della vita salvo che non ci pensi prima il sole, estinguendosi o meglio ingigantendosi fino ad inglobare il nostro pianetino e poi spegnendosi e ponendo fine al ciclo: siamo nati da un Big Bang, e finiremo in un Big Crunch. Tuttavia secondo la scienza l’infausto evento dovrebbe avvenire fra qualche miliardo di anni, quindi anche se la durata media della vita si sta allungando, diciamo che il discorso è proiettato in un futuro remoto, tanto remoto che poco ci riguarda, e che quindi abbiamo il tempo di porre rimedio al rimediabile pensando a migliorare il presente e magari anche il futuro prossimo. Eccoci quindi responsabili di quella meraviglia di pianeta che tutto il cosmo ci invidia, e che molti amano definire blu in quanto composto per i tre quarti da un’immensità liquida che continuiamo a chiamare oceano, e che oggi è il grande malato della nostra Terra. Su questo dettaglio dovremmo forse riflettere un po’ di più perché, dopo averlo considerato da una parte un inesauribile fonte di cibo fino a ridurne drammaticamente le risorse, e dall’altra un immenso bidone della spazzatura, oggi ci rendiamo conto che dalla sua salute dipende la nostra. Il lento ma progressivo scioglimento delle calotte polari sta poco a poco innalzando la superficie degli oceani, e alcune isole prive di rilievi, come il piccolo arcipelago di Tuvalu, rischiano di essere sommerse e scomparire dalle carte nautiche. L’importanza dell’oceano L’oceano fornisce il 50% dell’ossigeno che respiriamo, assorbe il 25% dell’anidride carbonica che produciamo, regola l’andamento climatico del pianeta assorbendo il 90% del calore in eccesso che produciamo, da cui però deriva inevitabilmente un aumento della temperatura dell’acqua marina, che da un lato ha forti conseguenze negative sull’ambiente biologico, e dall’altra conseguenze che potremmo definire strutturali. Proviamo a citarne alcune. Come noto le calotte polari si stanno sciogliendo modificando poco a poco la geografia delle coste e delle isole: basti come esempio ricordare il progressivo affondamento di piccoli arcipelaghi come quelli di Tuvalu e Kiribati, in mezzo al Pacifico, destinati entro pochi anni ad “annegare” (ma le Maldive non sono messe molto meglio) per l’innalzamento del mare. Ci sono poi le correnti marine, che per migliaia di anni hanno regolato il clima dei continenti e le rotte dei grandi migratori che poco a poco stanno cambiando direzione, e le barriere coralline centro vitale di biodiversità che soffrono per l’innalzamento termico e per la crescente acidificazione del mare. Il problema delle reti fantasma è una forma di inquinamento difficile da risolvere, anche perché per degradarsi il nylon delle reti può richiedere secoli. Possiamo proseguire con la drastica diminuzione delle risorse ittiche frutto di un indiscriminato overfishing, senza dimenticare quanto accade nel nostro piccolo Mediterraneo dove le variazioni termiche hanno già portato a modifiche non sempre positive della fauna marina, con l’ingresso di centinaia di nuove specie o di vere e proprie bio-invasioni di cui abbiamo avuto un chiaro esempio con la recente proliferazione del granchio blu. E purtroppo, senza voler essere accusati di catastrofismo, non è finita qui, perché ad esempio non abbiamo ancora citato l’inquinamento della plastica, e fra le tante drammatiche immagini quale potrebbe essere più significativa di quella busta di plastica fotografata sul fondo della Fossa delle Marianne a 9972 metri di profondità? L’acidificazione degli oceani ha portato la morte su molte barriere coralline, come testimoniano gli scheletri bianchi e privi di vita delle madrepore. La situazione attuale La diagnosi è spietata ma le cure, nonostante gli sforzi dell’ambientalismo serio, non di quello di facciata, annaspano spesso nell’indifferenza generale. Della sofferenza delle superfici emerse ci si rende facilmente conto; quelle del mare, invece, restano troppo spesso sommerse, o a volte soccombono quando entrano in gioco macro interessi economici. La stessa informazione generalista dovrebbe essere più solerte nel sottolineare la drammaticità della situazione, ma in tempi di guerre e sofferenze sbattute quotidianamente in faccia dai grandi media chi vuol sentir parlare di problemi ambientali che peraltro non si vedono e poco si percepiscono? Per questo forse, mentre potremmo fare a meno di protagonisti in cerca di facile notorietà, l’informazione dovrebbe evitare gli eccessi green di certa politica, ed offrire un quadro più chiaro e documentato della realtà dei nostri oceani. L’UNOC3 recentemente svoltosi a Nizza ha fatto il punto sulle maggiori criticità dell’oceano: molti i progetti e lepromesse che si spera siano mantenute L’intervento dell’ONU La gravità del problema è tuttavia nelle corde delle grandi Istituzioni internazionali e una su tutte, l’ONU, ha recentemente riunito la globalità degli Stati membri per fare il punto sul problema oceano. Organizzata dai governi della Francia e del Costa Rica, la terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano, o più semplicemente UNOC3, ha visto a Nizza la partecipazione di 193 Stati membri dell’ONU, rappresentati da 60 capi di stato e di governo, affiancati da oltre 12.000 fra funzionari, ricercatori, e imprese varie, e al di là del “Trattato sull’Alto Mare” ha gettato le basi per cercare di arginare con un’azione globale il sempre più allarmante degrado degli oceani, concentrando l’interesse dei partecipanti su un’ampia serie di problemi. Il deep-sea mining, ovvero l’attività mineraria negli abissi oceanici, promette grandi ricchezze, ma anche molte incertezze sui possibili danni in un ambiente ancora poco conosciuto. Qui una delle speciali macchine di raccolta dei noduli polimetallici. L’accordo Il “Trattato sull’Alto Mare”, ovvero un accordo sulla biodiversità marina delle aree aldilà della giurisdizione nazionale, è legato alla ratifica di almeno 60 paesi membri, e con le 18 firme aggiunte a Nizza il traguardo è vicino, anche se curiosamente e almeno per il momento a queste firme manca quella dell’Italia, che pure si è sempre spesa molto per la difesa del mare. Ma a cosa si riferisce questo trattato? Prevalentemente alla protezione di quei due terzi del pianeta oceano che essendo al di fuori della giurisdizione dei singoli paesi potrebbero diventare, usando le parole del Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres, un pericoloso Far West. La protesta degli ambientalisti di Greenpeace Nei suoi obiettivi più ambiziosi il trattato mira a tutelare sotto vari aspetti l’uso responsabile dell’ambiente marino, mantenendo l’integrità degli ecosistemi oceanici e conservando il valore intrinseco della biodiversità marina. Il discorso è mirato particolarmente a quel 64% dell’alto mare che, essendo privo di un controllo politico che ne regoli lo sfruttamento, resta esposto a qualunque forma di predazione umana, inclusa quella sulle grandi piane abissali sulle quali, date le loro ricchezze sempre più accessibili grazie alle moderne tecnologie, si sta riversando l’interesse del “deep-sea mining”, ovvero lo sfruttamento minerario degli alti fondali. Da queste immense piane abissali si possono infatti recuperare a profondità fra i 3000 e i 6000 metri tonnellate di preziosi noduli polimetallici contenenti alte percentuali di manganese, ma anche altri metalli rari e preziosi come oro e argento, nichel e rame, zinco e cobalto. Data la scarsa conoscenza degli ecosistemi profondi e della biodiversità che ne regola i rapporti ambientali, dare il via ad un’attività del genere senza aver prima studiato le possibili conseguenze sull’ecosistema potrebbe creare danni imprevedibili e potenzialmente irreversibili, anche perché non è ancora chiaro cosa potrebbe derivare dallo scavo e dal sollevamento degli enormi depositi di sedimenti vulcanici depositatisi sul fondo durante la formazione del pianeta, materiale che si disperderebbe inevitabilmente in mare. Anche se siamo solo agli inizi di questo tipo di attività, su cui molti “big players” incluse alcune compagnie italiane stanno affinando le loro tecnologie, e anche se lo stesso Donald Trump sta oggi spingendo incoscientemente sull’acceleratore, lo sfruttamento ufficiale dei fondali oceanici è al momento virtualmente vietato, e recentemente è stata richiesta in merito una moratoria che ha visto in prima linea la Francia, con il sostegno del suo Presidente Emanuel Macron. Un nodulo di manganese raccolto in fondo all’oceano. Un ecosistema complesso Se son rose fioriranno, verrebbe da dire sulla scia dell’antica saggezza popolare, nel senso che nell’ambito dei sei giorni che hanno caratterizzato l’UNOC3 di Nizza sono state lanciate una serie di iniziative di grande importanza ai fini della difesa degli oceani; se poi alle parole seguiranno i fatti è un altro discorso, anche se è lecito sperare che questa volta con la consapevolezza di una situazione veramente border-line qualcosa di concreto uscirà fuori. La conferenza non prevedeva un documento finale, quindi tutto quanto è stato detto è al momento a livello di buone intenzioni, ma alcune problematiche sono state portate in primo piano studiando possibili soluzioni. Un esempio che ben conosciamo anche nel piccolo del nostro Mediterraneo è quello sulla gestione sostenibile degli stock ittici, oltre il 30% dei quali secondo le stime dei maggiori enti internazionali, Nazioni Unite incluse, sono sovrasfruttati. Ripristinare lo stato degli stock per garantirne la sopravvivenza è un obiettivo da perseguire con la massima urgenza, combattendo soprattutto la pesca illegale: un’operazione tutt’altro che semplice andando a scontrarsi con giganteschi interessi economici, e soprattutto contro la scarsa o nulla possibilità di controlli o di repressione su un territorio immenso come quello dell’oceano. Le profondità abissali dell’oceano sono un ambiente ancora poco conosciuto e abitato da una fauna dall’aspetto inquietante; ciononostante l’inquinamento della plastica, già devastante in superficie e che mette a rischio molte specie marine, ha toccato anche la Fossa delle Marianne, dove a 9972 metri di profondità sono stati fotografati iresti di alcuni sacchetti di plastica. Il problema, peraltro, non è minore se passiamo dal macro al micro, ovvero da quello che si vede a quello che non si vede, o per dirla più chiaramente se prendiamo in esame lo stato del plancton, vera ed unica base vitale della catena alimentare marina: come dire che se sparisse il plancton sparirebbe la vita dagli oceani, e volendo essere un po’ più catastrofisti, considerando che è proprio il plancton, vero e proprio polmone verde del pianeta, ad assorbire il 25% dell’anidride carbonica che affligge l’atmosfera e a fornire il già citato 50% dell’ossigeno che respiriamo, potremmo vedercela male anche noi umani. Il plancton soffre oggi soprattutto del forte e purtroppo crescente incremento termico, basterebbe ricordare che lo scorso maggio è stato il secondo mese più caldo mai registrato, ma anche dell’inquinamento e dell’acidificazione delle acque marine. Le cosiddette reti fantasma, perse per incuria o per essersi inesorabilmente incagliate nel fondale, sono un problema che affligge l’oceano e soprattutto i fondali costieri. Il nylon è immarcescibile e impiega secoli per degradarsi, in compenso le reti continuano a pescare e ad uccidere sia pesci che mammiferi marini. La plastica Gli oceani condividono senza difesa anche il planetario problema della plastica, e ancor più quello invisibile ma non meno minaccioso della microplastica. Nella conferenza di Nizza 90 paesi hanno dichiarato di voler porre fine a questa devastante emergenza globale, cosa peraltro non nuova, ma compito impervio perché l’uso della plastica è talmente esteso e va a toccare talmente tanti micro e macro interessi che per eliminarla ci vorrebbe tanta ma tanta buona volontà. Ed è proprio il “tanto” che lascia perplessi. Non staremo a ripetere quei numeri sulla diffusione della plastica già scritti migliaia di volte ma non per questo meno impressionanti, né sarebbe possibile approfondire l’argomento in poche righe, quindi limitiamoci a dire che oggi si producono al mondo circa 460 milioni di tonnellate di plastica, quantità destinata a moltiplicarsi in un prossimo futuro, e che se sulla terraferma pur non esistendo ancora una corretta catena di smaltimento in qualche modo vengono eliminati, i milioni di plastica che finiscono in mare… lì restano, per centinaia se non migliaia di anni. È difficile non cedere alla tentazione di fare qualche esempio che può dare un’idea del problema: a seconda delle condizioni ambientali la classica bottiglia di plastica che beviamo ogni giorno impiega per degradarsi da 100 a 1000 anni, idem per i sacchetti di plastica (come quello trovato in fondo alla Fossa delle Marianne), il filtro di una sigaretta può richiedere fino a 15 anni, per una gomma americana di anni ne servono 5, ma al top della classifica ci sono i contenitori di polistirolo come quelli usati dai pescatori professionisti e quelli per gli imballaggi, che non solo per degradarsi possono superare i 1000 anni, ma che costituiscono anche il 50% di tutta la plastica che finisce in mare. In merito è arrivato da UNOC3 un messaggio chiaro e ben articolato, che tradotto in un trattato in cinque punti già firmato da 95 paesi mira ad una totale riconsiderazione del problema plastica rivedendone drasticamente e in tempi brevi produzione e consumo. Le possibili soluzioni Le soluzioni per migliorare l’attuale degrado degli oceani si conoscono, il difficile è applicarle perché oltre ai problemi della burocrazia c’è da mettere d’accordo i quasi 200 Stati membri, e soprattutto da mettere in pratica le idee, perché mai come in questo caso fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Per il momento quelli che dovrebbero essere fatti e non parole rispondono agli investimenti annunciati da player importanti, come ad esempio l’Unione Europea, che ha promesso un miliardo di euro di investimento a favore di progetti scientifici mirati al ripristino degli ecosistemi marini. UNOC3 ha anche adottato un complesso “Patto Europeo per gli Oceani” per una migliore gestione delle attività marine, un impegno decisamente oneroso e programmato per una soluzione in tempi brevi, tanto che ci si chiede come sarà possibile attuarlo dopo decenni di inutili tentativi senza la concreta e solidale partecipazione di tutti gli Stati membri. Il che non toglie che ci piace vedere il bicchiere mezzo pieno, e in ogni caso, essendo la conoscenza alla base di un ambiente complesso e ancor poco conosciuto come quello degli oceani, ben venga qualunque iniziativa mirata alla ricerca. “Non possiamo proteggere ciò che non conosciamo: investire nella ricerca significa investire nel futuro stesso del Pianeta”, ad affermarlo è Raffaella Giugni, Segretario Generale di Marevivo, associazione che da 40 anni si batte per la difesa del mare e dell’ambiente. La citazione non è casuale perché Marevivo ha presentato ad UNOC3 una proposta per un “Accordo Internazionale per la Catalogazione della Biodiversità Marina” mirato a creare un’iniziativa globale che, studiando l’ambiente in località integre come le Aree Marine Protette, possa aiutare a comprendere meglio gli ecosistemi marini. Proteggere gli oceani non è una battaglia persa, ma vincerla sarà molto difficile, e sarà della massima importanza fare in modo che i ruoli vengano rispettati: come dire che la politica non può bypassare la scienza, perché se la prima porta le parole, la seconda porta i fatti. Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo!