Molto sappiamo sulla storia della navigazione, molto meno sulla sua preistoria e sui primi passi di quell’arte del navigare le cui radici affondano in un passato più che remoto.

Le piroghe erano il segno di un insediamento stabile, palafitticolo o meno, ma dovevano essere necessariamente legate ad alcune condizioni ambientali, in primis la presenza di alberi d’alto fusto come ad esempio alcune specie di quercia, molto utilizzate, da cui ricavare la piroga stessa, e ovviamente acque lacustri o fiumi su cui farla navigare. 

Imbarcazioni monossili

Per quanto riguarda l’Italia molte imbarcazioni monossili sono venute alla luce in regioni come il Piemonte, il Veneto, la Lombardia, ma anche il Lazio, soprattutto nella zona dei laghi di Bracciano e di Bolsena.

Molte ben conservate quando il limo del fondo le ha protette nei millenni, altre meno, ma comunque utili ad individuare la presenza degli antichi insediamenti, che per onor di cronologia risalirebbero a 4-5000 anni fa. Mentre la piroga monossile è stata utilizzata nei laghi italiani anche nei millenni successivi, la più antica mai recuperata in discreto stato di conservazione è al momento quella di Pesse, in Olanda, che il carbonio 14 ha datato fra l’8040 e il 7510, naturalmente a.C., tuttavia…

canoe
Le canoe monossili esposte al Museo Civico di Crema e del Cremasco sono uno straordinario esempio di questa antica tipologia di barca. Le canoe monossili erano ricavate da un unico
tronco d’albero scavato all’interno con l’utilizzo di attrezzi o del fuoco, e il loro uso unicamente fluviale si estese in alcuni siti fino in epoca storica.

Le prime piroghe

Tuttavia recenti ritrovamenti archeologici nell’isola di Cipro, che dista dalla terraferma circa 40 miglia, portano a una riflessione. Nel levante dell’isola sono stati ritrovati, nello specifico nel sito di Khirokitia, i resti di villaggi risalenti ad oltre 10.000 anni fa, e poiché uomini e case non nascono spontaneamente come i funghi c’è da pensare che questi primi abitanti del neolitico cipriota siano arrivati sull’isola via mare dalle attuali coste turche. 

Prescindendo da approfondimenti da fare in altri contesti, il fatto resta: qualcuno 10.000 anni fa, quando le piroghe monossili erano ancora un lontano progetto, navigava in mare aperto per decine di miglia. Come? Forse, secondo le ricerche di un team israeliano, con una sorta di catamarano a vela costruito sulla base di due canoe, ma al momento si tratta solo di un’ipotesi.

sito Marmotta
Il sito della “Marmotta”, nel Lago di Bracciano, ha offerto alcuni dei più interessanti esempi di canoe monossili.
Preservate dal fondo fangoso e anaerobico del lago, e oggetto di una scrupolosa ricerca subacquea condotta fra il 1992 e il 2006, sono fra i più antichi reperti “nautici” del Neolitico. Giacevano ad 11 metri di profondità, e la più grande delle cinque canoe ritrovate misurava 11 metri di lunghezza.

Del  resto spiegazioni analoghe devono anche giustificare il ritrovamento di centinaia di utensili di pietra sulla costa meridionale di Creta, distaccatasi dalla terraferma oltre tre milioni di anni fa. La scoperta, dovuta a due archeologi americani, Curtis Runnels e Thomas Strasser, considerando che in quell’epoca l’Homo sapiens non era ancora arrivato in Europa, richiede forse la revisione tipologica dell’evoluzione umana, dato che chi ha fabbricato quegli utensili era indubbiamente un ominide con altre origini, forse più simili al nostro ben conosciuto uomo di Neanderthal.

antico bassorilievo
Un antico bassorilievo assiro mostra la ricchezza di quelle canne che crescevano rigogliose sulle sponde dei fiumi, e che furono fra i primi materiali di costruzione degli antichi mezzi di navigazione. Facili da utilizzare, leggere, robuste, e galleggianti anche se non molto resistenti nel tempo furono utilizzate nella costruzione delle barche da diverse popolazioni.

Non solo canne

Nel prosieguo della storia le linee di sviluppo della navigazione, a prescindere se in acque dolci o salate, hanno preso molte strade, spesso sfruttando le condizioni ambientali e il materiale a disposizione. Legno a parte, uno dei materiali più utilizzati nell’antichità furono le canne palustri, ed in particolare il papiro che nell’antico Egitto, ma non solo, trovò larga applicazione.

Le sponde del Nilo offrivano da questo punto di vista un’inesauribile riserva di materiale, e con il papiro si costruirono sia piccole imbarcazioni per uso quotidiano sia imponenti navi riservate ai grandi dignitari e allo stesso faraone, navi usate per le grandi cerimonie religiose, per spostamenti importanti, o per diletto: alcuni faraoni, ad esempio, usavano queste barche per pescare, attività ricreativa molto apprezzata. 

Riunito in fasci tenuti insieme da sapienti legature, il papiro offriva innanzi tutto la facile reperibilità del materiale, ma anche una buona galleggiabilità. Meno valida la sua resistenza  al degrado, e le prestazioni di imbarcazioni che  mosse a remi o a vela avevano ovviamente una carena piatta con le intuibili problematiche del caso. I tragitti erano comunque brevi, e se in molti casi si poteva sfruttare la corrente del fiume, in altri la si risaliva trainando la barca da riva.

Le canne palustri non furono però un’esclusiva egiziana, dato che con lo stesso materiale si realizzavano barche sia in molte altre parti dell’Africa, sia in Sud America, sia in Cina, sia dalle nostre parti, come i “fassoni” utilizzati per la pesca nello stagno di Cabras, in Sardegna, ancor oggi in uso.

Ci fu però chi sull’utilizzo del papiro elaborò teorie di grande fascino, che dimostrò poi con avventurose navigazioni. 

fassoni sardi
Utilizzati fin dal tempo delle popolazioni nuragiche i “fassoni” sardi, costruiti con fasci di canne legati da corde di giunco, sono stati utilizzati per millenni nello Stagno di Cabras, dove sono ancor oggi parte della tradizione locale.

Thor Heyerdahl

Il riferimento è ovviamente a Thor Heyerdahl e alle sue coraggiose imprese: quella del Kon-Tiki, che era però realizzato in legno di balsa,  con cui nel 1947 avvalorò la sua teoria sul popolamento delle isole del Pacifico, ma soprattutto quella del Ra II, barca fatta interamente di papiro a modello delle antiche imbarcazioni egizie e costruita da specialisti boliviani del Titicaca, con cui nel 1970, dopo un primo fallimento, attraversò l’Atlantico in 57 giorni e 3270 miglia per dimostrare la possibilità di viaggi transoceanici già nell’era dei faraoni.

Non contento, Heyerdahl pensò poi nel 1978 di dimostrare i collegamenti oceanici fra l’antica Mesopotamia e la Valle dell’Indo. Con una barca simile alle precedenti, non a caso chiamata Tigris, discese l’omonimo fiume per avventurarsi nell’Oceano Indiano, una spedizione purtroppo sfortunata e fermata dopo 143 giorni di navigazione a causa degli eventi bellici in corso. Per curiosità ricordiamo che Heyerdahl in segno di protesta bruciò la sua barca davanti alla costa.

barca di papiro
Attraversando l’Atlantico in 57 giorni con una barca di papiro costruita secondo le antiche metodologie ai piedi delle piramidi, il Ra II, Thor Heyerdahl volle dimostrare la sua teoria secondo cui gli antichi Egizi raggiunsero il continente americano ben prima degli Europei.

Il kuphar

L’accenno al Tigri, aggiungendoci l’Eufrate, ci offre però l’occasione per dare uno sguardo ad un’altra curiosità storica ovvero, riavvolgendo il nastro al tempo degli Assiri, per scoprire una diversa formula nautica basata in primis su zattere formate da otri di pelle gonfiati e impermeabilizzati, e successivamente dalle “kuphar”, per altro rimaste in uso fino a poche decine di anni fa. 

Questa singolare imbarcazione era una sorta di cesta circolare dai bordi concavi realizzata con uno scheletro di vimini ricoperto di pelli impermeabilizzate con il bitume. La “kuphar” veniva spinta o meglio semplicemente direzionata a remi o con delle aste, nel senso che non aveva propulsione propria e poteva solo scendere i fiumi seguendo la corrente, e non risalirli. La sua evoluzione, il “kalek”, consentiva invece di essere smontata a fine corsa e riportata a casa.

Facendo un salto geograficamente drastico, vediamo che oltre alle fibre vegetali, un altro materiale molto utilizzato per le sue caratteristiche di robustezza oltre che per la facile disponibilità, erano le pelli di animale. 

kuphar
La kuphar, utilizzata fino a pochi decenni fa per scendere a corrente lungo il Tigri e l’Eufrate, era un’imbarcazione con un’armatura di vimini ricoperta di pelli animali impermeabilizzate con bitume.

I kayak

E proprio utilizzando pelli di foca impermeabilizzate con grasso animale e una struttura portante realizzata con ossa di balena, gli Inuit realizzavano i loro kayak. Per quanto apparentemente la storia di questa imbarcazione sia recente, si ritiene che fosse usata dagli Inuit e dalle popolazioni dell’estremo nord americano già 4500 anni fa, anche se è probabile che le sue origini siano più antiche. 

Utilizzato soprattutto per la caccia e per la pesca il kayak, oggi diventato barca ludica al servizio di un turismo estremo, è per alcuni aspetti decisamente interessante. Poco si sa delle sue origini, mentre più note sono le sue caratteristiche, a partire dalla forma dello scafo a doppia punta ideale per  muoversi ed infilarsi fra i ghiacci del pack. Agile, leggero, e veloce il kayak era anche relativamente stabile e ribaltabile in caso di rovesciamento in quanto nel caso imbarcava pochissima acqua.

Muovendosi, così come oggi nella sua versione moderna, per mezzo di una pagaia a pale parallele, era estremamente silenzioso, e quindi ideale per avvicinare le eventuali prede. La curiosità, a proposito di questo tipo di imbarcazione, era quella di essere realizzata su misura, nel senso che per mantenere la massima stabilità e facilità di manovra i kajak, di forme estremamente rastremate e lunghi fino a 7 metri, venivano adattati come peso, lunghezza, larghezza e luce dell’abitacolo alle misure del singolo utilizzatore.

kayak
Barca di origini antichissime il kayak, utilizzato dalle popolazioni artiche soprattutto per la caccia e per la pesca, rispondeva a precise esigenze nautiche, ancor oggi apprezzate per chi ama vivere un turismo alternativo.

Navigare da faraoni

Entrando in epoca storica, o quasi, difficile non parlare dell’antico Egitto, dove l’importanza del navigare era tale che si pensava che anche nell’aldilà fosse necessaria la disponibilità di una barca, tanto che spesso nel caso dei faraoni, dove ogni esagerazione era un eufemismo, le loro barche venivano spesso sepolte nei pressi della tomba. Curiosamente, vale la pena ricordare nell’ottica di quell’evoluzione culturale parallela comune a molti settori, che la pratica di seppellire le imbarcazioni dei re era comune anche a popoli assai lontani, ad esempio i Norreni, più noti come Vichinghi.

A livello di avere una bella barca anche per l’aldilà, in grado cioè di accompagnare il faraone nel seguire il cammino del sole dall’alba al tramonto, l’esempio massimo potrebbe esse la celebre “nave solare di Cheope”, scoperta nel 1952 durante una campagna di scavi  nella piana di Giza, ovvero a due passi dall’omonima e ancor più celebrata piramide.

La particolarità di questo yacht faraonico da molti punti di vista, oltre alla sua lunghezza di ben 43,40 metri per 5,90 di baglio con un dislocamento stimato di circa 40 tonnellate, era lo scafo  praticamente e misteriosamente smontato in 1224 pezzi, per l’esattezza 407 elementi disposti su 30 strati: in pratica una sorta di gigantesco puzzle che richiese agli archeologi ben 13  anni per essere rimontato.

navigazione antichi Egizi
Gli antichi Egizi avevano buone conoscenze nautiche, anche se sviluppate prevalentemente sul fiume, come dimostra un bassorilievo che riproduce alcune barche in costruzione.

La cantieristica degli antichi Egizi

In compenso le condizioni del legno, perfettamente conservato anche dopo più di 4600 anni grazie alle condizioni ambientali, hanno rivelato molti dettagli sulla cantieristica egizia dell’epoca. Dotata di cinque ordini di remi più due a remi a poppa con funzione di timone, la barca di Cheope era costruita in legno di cedro, che vale pena notare non crescendo in Egitto era stato probabilmente importato dal Libano. Il che ci fa desumere che se pure la nave di Cheope, come sembra, non abbia mai navigato, le navi egizie erano in grado di affrontare il mare aperto. 

Non però, per l’appunto, la nave di Cheope, che presentando una carena piatta era tutt’al più in grado di navigare sulle calme acque del Nilo. Interessante notare anche il metodo di costruzione di queste navi,  che prevedevano uno scafo realizzato con fasciame autoportante, ovvero privo di ordinate interne, tenuto insieme da particolari incastri simili a quelle mortase e tenoni usate nei millenni successivi e rinforzato con legature di fibre vegetali.

barca solare di Cheope
La celebre nave solare di Cheope, scoperta nel 1952 nella piana di Giza e costruita in legno di cedro, ha rivelato molti dettagli della cantierista dell’antico Egitto.

Misteriosi e straordinari

Prima di fondersi in un sapere comune mirato ad affrontare il mare e non l’acqua dolce, già in epoca preistorica le varie tecniche cantieristiche si svilupparono ognuna in modo indipendente nelle varie cellule umane sparse per il globo. In molti casi le soluzioni finivano per convergere, in altri seguivano una via propria.

Mentre sappiamo molto delle tecniche cantieristiche proprie del Mediterraneo e dei paesi limitrofi, poco sappiamo ad esempio di terre, o meglio isole, lontane: ad esempio la Polinesia. Geograficamente il termine è vago, ma l’idea di base è quella di indicare i tanti arcipelaghi sparsi per il Pacifico, da cui emergono nomi seduttivi che vanno dalle Hawaii alle Tuamotu, dalle Samoa alle Marchesi, da Tahiti all’Isola di Pasqua e via dicendo.

Come e da chi furono popolate isole che distano fra loro migliaia di chilometri è ancor oggi poco chiaro, salvo il fatto che inderogabilmente quelle popolazioni vi arrivarono  via mare e che mostrano tratti somatici simili. La teoria sostenuta da Thor Heyerdahl, che siano state popolate da genti provenienti dal Sud America, probabilità che aveva dimostrato possibili con l’avventura del suo Kon-Tiki, non trova più oggi molto credito, e gli antropologi sono più propensi a credere che questa trasmigrazione sia avvenuta di isola in isola partendo da occidente. Possibile? Magari navigando controvento e contro corrente?

Tutto è possibile avendo a che fare con gente che aveva il mare nel sangue, doti fisiche di prim’ordine, il gusto dell’avventura e straordinarie capacità di orientamento. Solo che tutto questo non sarebbe servito a niente senza avere il supporto di imbarcazioni che l’esperienza di secoli aveva disegnato per l’oceano. Barche che potevano essere piccole per i tragitti locali, ma anche lunghe qualche decina di metri per i grandi spostamenti e stabilizzate da un secondo scafo d’appoggio. 

L’Hōkūleʻa, uno dei due grandi catamarani
L’Hōkūleʻa, uno dei due grandi catamarani ricostruiti con piena fedeltà alle antiche imbarcazioni polinesiane, che sono oggi impegnati in una navigazione di 43.000 miglia che toccherà i principali arcipelaghi del Pacifico.

Il proa

Parliamo in pratica di una particolare forma di catamarano asimmetrico, più noto come proa, che presentava limitate capacità di carico, e il fatto che con queste barche i Polinesiani attraversassero l’oceano sta a testimoniare, nonostante la loro apparente semplicità, le qualità nautiche di questa tipologia costruttiva.

Di base il proa aveva, ed ha tutt’oggi, visto che in versione moderna queste barche sono ancora utilizzate per uso locale o  per fini turistici, poppa e prua uguali, il che, unito alla particolare armatura dell’albero, facilitava al massimo le virate mantenendo sempre sottovento lo scafo di appoggio. Per le navigazioni più importanti, quelle di scoperta e trasmigrazione, quando a bordo si caricavano decine di persone più merci ed animali, le barche assumevano l’aspetto di veri e propri catamarani.

Poiché guerre e religioni appartengono al DNA dell’uomo, vale la pena ricordare che se le imbarcazioni polinesiane erano considerate un’arte sacra, e venivano realizzate sotto la protezione degli dei e la supervisione dei grandi sacerdoti, d’altro canto erano anche utilizzate per combattere, anzi queste erano le imbarcazioni più imponenti ed attrezzate, e indubbiamente stupisce il fatto che anche su isole scarsamente abitate si trovasse comunque il modo di menar le mani. 

In ogni caso, fossero a due scafi asimmetrici di cui uno dedicato al bilanciamento della barca, o a scafi simmetrici come un vero e proprio catamarano, queste barche  avevano scarse possibilità di bolina salvo come detto quelle a doppia prua, data anche una velatura piuttosto rustica realizzata per lo più con foglie di pandano battute ed intrecciate, e data la mancanza di deriva e di timone poiché venivano governate direttamente con le pagaie. 

Non bastassero queste caratteristiche poco incentivanti, va anche ricordato che gli antichi Polinesiani non possedevano alcuna carta nautica, e in realtà non conoscevano proprio la scrittura, e si orientavano in un modo che potrebbe anche sembrare primitivo ma che ha comunque permesso loro di conquistare il Pacifico.

piroga polinesiana
In Polinesia la piroga con bilanciere ha origini antichissime, e viene ancor oggi utilizzata sia nell’uso quotidiano che in quello turistico.

La navigazione

A guidarli era il movimento del sole e delle stelle, il volo degli uccelli, il movimento delle onde, un istinto naturale. Senza dimenticare che se alcune isole svettavano a grandi altezze con le loro montagne e vulcani, gli atolli corallini si innalzavano dal livello del mare solo di pochi metri. In questi casi potevano valere la classica nuvoletta dovuta alla variazione termica che si innalza sopra le isole, o sistemi più alternativi.

Ad esempio venivano sfruttate le straordinarie capacità olfattive dei maiali, sempre presenti a bordo come scorta di cibo: messo in acqua, se l’animale fiutava terra iniziava a nuotare in quella direzione, altrimenti girava in tondo  intorno alla barca finché veniva recuperato a bordo. Il che aggiunge un’ulteriore qualità a quelle già ben note di questi simpatici animali.

Naturalmente una barca esotica, affascinante, e capace di attraversare l’oceano non poteva non stimolare il moderno spirito avventuroso degli appassionati. Così con un’operazione nata diverse decine di anni fa ma concretizzatasi in corso d’opera e attualmente in pieno svolgimento nel pieno rispetto delle tradizioni cantieristiche degli antichi polinesiani, sono state costruite due grandi imbarcazioni sul modello della canoa hawaiana. 

Polinesia
Difficile immaginare dietro la spettacolare bellezza delle isole polinesiane le origini preistoriche della loro colonizzazione.

Due grandi imbarcazioni

L’Hōkūleʻa e la Hikianalia sono partite dall’Alaska e navigheranno per 43.000 miglia attraverso l’Oceano Pacifico con un programma che si svilupperà per la durata di 47 mesi alternando gli equipaggi e toccando un totale di 36 paesi e un centinaio di territori indigeni.

Naturalmente, in omaggio all’idea di dimostrare il legame fra le varie popolazioni polinesiane le due barche, che hanno una lunghezza di 19 metri, sono totalmente aperte e quindi esposte ai malumori del tempo, e navigheranno come le loro antiche progenitrici, ovvero senza usare i moderni strumenti di orientamento.

L’operazione, nata da un’idea della Polynesian Voyaging Society, porta il nome della barca principale, l’ Hōkūleʻa, barca costruita nel 1975 che quindi si appresta a compiere il suo mezzo secolo di vita in piena navigazione e con le dovute celebrazioni. L’operazione è infatti in pieno svolgimento, con le due barche da poco giunte nell’isola di Hilo, nelle Hawaii già pronte a ripartire per la Polinesia francese. Buon compleanno Hōkūleʻa!