In un mare sempre più povero, le barriere artificiali ricreano quella piramide alimentare che, dai microorganismi del substrato ai grandi predatori, riporta la vita in un ambiente ormai devastato. Un beneficio per l’ambiente ma anche per i pescatori.

Lo sfruttamento delle risorse marine ha da tempo superato il livello di guardia ma, per sopravvivere in mancanza di alternative, la pesca professionale non può che spingere al massimo la propria azione cogliendo il presente e sacrificando il futuro. In Mediterraneo, riserve marine e barriere artificiali cercano di riportare la vita in un mare fortemente impoverito.

Migliaia, centinaia di migliaia, milioni, centinaia di milioni, miliardi di anni. Ma quanto è vecchio il mare? In principio il Signore creò il cielo e la Terra, poi ci mise anche il mare ma per riempirlo di pesci aspettò il quarto giorno (o forse il quinto, le notizie in merito sono un po’ confuse) e a quel punto, dopo aver creato un vero paradiso, il sesto giorno decise di metterci dentro l’uomo, che disegnò a sua immagine e somiglianza e al quale affidò il dominio su tutto ciò che aveva creato. E questo fu forse un errore che, al momento, non poteva ipotizzare. Poi, decisamente esausto, il settimo giorno si riposò.

Da un altro punto di vista potremmo dire che il mare ha più o meno 4 miliardi di anni, uno più uno meno, anche se all’epoca quel brodo primordiale in cui nacque la vita aveva poco a vedere con il mare che oggi conosciamo.

Tanto per cominciare non era affatto salato, però di schifezze dentro ne aveva un bel po’, anche perché nasceva dal raffreddamento della crosta terrestre e dalla condensazione di tutti quei vapori che portavano nelle depressioni della Terra un’acqua carica di mille residui.

A susseguirsi, aggiungendo ulteriore caos in una situazione già poco raccomandabile, si aggiunsero poi il movimento delle placche tettoniche e l’incessante gioco delle eruzioni vulcaniche, finché all’estremo opposto arrivò il Pleistocene con le sue glaciazioni.

E il mare continuava a cambiare. Cambiava la sua geografia, cambiava il suo livello, e cambiava anche la composizione della sua acqua. E poiché a quel tempo la vita era già apparsa, seppur non ancora emersa, cambiavano anche le specie animali marine costrette ad adattarsi alla situazione.

Abbiamo così ridotto in poche righe quattro miliardi di storia, ma la sintesi era necessaria per questione di spazio, e in fondo voleva solo portare a una riflessione sulla storia che il mare di oggi porta sulle spalle. Una storia immensa che però, per quanto ci riguarda, può essere ridotta a quella di qualche secolo – o al massimo millennio – di anni fa. Perché, sempre per quanto ci riguarda, possiamo considerare il mare attuale come ciò che resta di primordiali sconvolgimenti globali, ma anche provare a confrontarlo con quello di qualche secolo, mezzo secolo, o anche solo di qualche decennio fa, e il panorama è triste.

Per i subacquei di pelo ormai bianco lo sconfortante  deserto che appare oggi mettendo la testa sott’acqua ha ben poco a che vedere con il panorama che si presentava anche solo 50-60 anni fa, quando banchi di saraghi  giocavano a nascondersi fra gli scogli in pochi metri d’acqua, sciami di corvine sfilavano in parata esibendo la loro flessuosa eleganza, mentre qua e là cernie, spesso gigantesche, osservavano con attenzione la scena, finché tutti all’improvviso si allarmavano per l’arrivo di un banco di ricciole.

Non è la favola di Cappuccetto Rosso, è il nostro Mediterraneo del secolo scorso, indelebile immagine di chi ha avuto la fortuna di viverlo, e purtroppo immagine sbiadita dal tempo di un mare che oggi è solo il pallido ricordo di quello che fu. E se non bastassero le parole, provate a vedere cosa portano a terra le reti dei pescatori, che pur di sopravvivere si affidano alle più sofisticate tecnologie, sforando a volte nell’illegalità, ma con un bottino comunque generalmente misero.

L’eventuale eccezione non è confortante, perché quando la fortuna o l’abilità portano sulla zona giusta, più che depredarla fino all’ultima squama sarebbe bene regolare la pesca con la forza del buon senso, ricordando che quando il prelievo non garantisce le possibilità di riproduzione di una specie ittica, questa entra in sofferenza.

Il che, tradotto in cifre, ricorda che nel Mediterraneo il 93% delle specie ittiche cosiddette “target” è soggetto a sovrasfruttamento, mentre il by-catch, ovvero le specie prive di valore commerciale o sotto taglia che finiscono nelle reti ma che poi vengono normalmente rigettate in mare, arriva al 70% del pescato.

Il riscorso alle barriere artificiali per dare respiro alla catena alimentare marina è da anni un espediente seguito a livello globale, realizzando strutture apposite.

Una soluzione mirata

Non spenderemo i fiumi di parole per raccontare come siamo arrivati a questo punto: meglio agganciarsi al preambolo iniziale per analizzare invece cosa possiamo fare oggi per recuperare almeno in parte la situazione. Ridimensionare lo sforzo di pesca sicuramente, o ancor meglio ottimizzarlo sulla base delle esigenze dei vari stock ittici, ma per quanto ancora possibile limitare l’antropizzazione delle coste anche se è un po’ la storia di chi chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati, e ancora contenere al massimo  l’inquinamento, da quello degli idrocarburi a quello della plastica e delle conseguenti microplastiche, o provare a riportare la vita là dove oggi è scomparsa ricorrendo all‘unico sistema possibile: creare strutture che aiutino  a ricostruire quella basilare piramide dell’ecosistema che appare oggi seriamente danneggiata.

Il riscorso alle barriere artificiali per dare respiro alla catena alimentare marina è da anni un espediente seguito a livello globale, calando in mare materiali
utilizzati e accuratamente bonificati, inclusi relitti e… vagoni ferroviari.

Le barriere artificiali, da non confondere con gli sbarramenti frangiflutti posti a difesa dei litorali contro l’erosione marina, non sono in realtà una trovata del nostro secolo, dato che cumuli di massi calati sul fondo per attirare possibili prede sono noti fin dall’antichità, anche se uno sviluppo più studiato e mirato è nato con le esperienze giapponesi del XVIII secolo, seguite poi da analoghe iniziative sorte negli Stati Uniti e in Australia.

In Mediterraneo, e in Italia in particolare, la storia delle barriere artificiali è molto più recente e i primi esempi possono datarsi all’inizio degli anni ’70 del ‘900 quando, nella zona di Porto Recanati, l’Istituto di Ricerche sulla Pesca Marittima di Ancona calò in mare 12 piramidi di calcestruzzo che fecero da apripista per analoghe realizzazioni nate poi lungo i litorali di Fregene, Castellammare e Loano.

In molti mari tropicali, ad esempio alle Maldive, sono state calate in mare strutture artificiali realizzate con materiali inerti e con tecnologia 3D a imitazione del reef corallino.

I vari tipi di barriere, da quelle realizzate con moduli appositamente studiati a quelle quasi casuali costituite da relitti o da materiale di risulta, creano in pratica un ecosistema artificiale, ovvero una realtà biologicamente produttiva analoga – se non più – a quella di una scogliera naturale. In Italia non sembra esserci un preciso censimento delle barriere artificiali, ma è stato calcolato che, considerando anche le barriere frangiflutti poste spesso a protezione delle spiagge, l’insieme occupa circa il 10% degli 8.000 km delle nostre coste.

Da notare che le citate barriere frangiflutti hanno un aspetto bivalente, perché se da una parte proteggono il litorale sabbioso dall’erosione provocata dal moto ondoso, dall’altro modificano spesso l’idrodinamicità della zona  finendo a volte per creare più un danno che un beneficio. Senza contare che il flusso dell’acqua che si crea all’interno del frangiflutti crea forti correnti in uscita che possono diventare pericolose anche per un nuotatore esperto. Un fenomeno analogo può investire anche i porti, dove l’aggiunta di moli e pennelli può causare insabbiamenti che necessitano poi di continui dragaggi per evitare pericoli alla navigazione.

 

Per un rifugio sicuro

Qui sopra, un’aragosta mediterranea.

La vita è dura in mare e la legge del pesce grande che mangia il pesce piccolo è una cruda realtà. Per questo, per mantenere la biodiversità è necessario ricreare quella piramide alimentare che vede alla base il fitoplancton e al vertice i grandi predatori, senza dimenticare – dato che in mare non esistono organismi senza nemici – un predatore esterno ma più spietato…l’uomo!

Le barriere artificiali nascono quindi dall’esigenza di creare strutture di rifugio per le forme giovanili di molte specie e, allo stesso tempo, per offrire un adeguato sviluppo al substrato di grandi e piccoli invertebrati che contribuiscono ad alimentare la biomassa aggiungendo un importante anello alla catena alimentare. Proprio per questa ragione, anche se qualunque struttura calata o casualmente affondata in mare può creare un’oasi di ripopolamento, per rendere efficaci al massimo le barriere artificiali sono state studiate forme e materiali che garantiscano la massima inerzia ambientale e allo stesso tempo una struttura di protezione per tutte le forme di vita.

Si va così dal calcestruzzo alla vetroresina, da composti di carbone e calce idrata fino a materiali sofisticati e appositamente realizzati, come avviene in Giappone con strutture che rilasciando in acqua nutrienti utili allo sviluppo della vita marina favoriscono l’insediamento di quella biodiversità da cui nasce la catena alimentare marina. E fra le strutture più avanzate fa piacere ricordare l’importanza del made in Italy, in particolare per la realizzazione di strutture in 3D come quelle realizzate dalla D-Shape, costruite con cementi ecocompatibili a base pozzolanica (per inciso già usati dai Romani per il loro porti).

Strutture piramidali su cui sta rinascendo la catena alimentare marina

E se in Estremo Oriente si ricorre a volte a sistemi artigianali formati da canne di bambù appositamente intrecciate, negli Stati Uniti si è visto soprattutto in passato un metodo che se da una parte univa l’utile al dilettevole dall’altro ha trovato non pochi contestatori.

L’uso di affondare in mare strutture di scarto come bidoni, vecchie automobili, imbarcazioni dismesse, pneumatici usati, fino ad arrivare a navi in rottamazione o addirittura alle piattaforme petrolifere che era più conveniente far esplodere e affondare in mare piuttosto che smontare pezzo per pezzo, poteva infatti avere effetti controproducenti.

Da un lato creava strutture in grado di offrire rifugi e protezione alle specie giovanili e più indifese, dall’altro, a seconda dei casi, poteva essere fonte di un inquinamento ambientale dovuto ai residui chimici o al lento degrado dei materiali. Un problema che poteva essere pressoché annullato se le strutture venivano preventivamente bonificate

I relitti, affondati accidentalmente per un drammatico naufragio, o volontariamente per creare una struttura di protezione per la fauna marina, creano anche straordinari scenari per i subacquei

La colonizzazione dei relitti

Al fatto di avvantaggiare due situazioni apparentemente opposte, come quella della dismissione di una piattaforma petrolifera e la creazione di un reef artificiale a protezione della fauna marina, se ne può aggiungere in realtà un terzo. Se consideriamo infatti quanti Paesi traggono notevoli guadagni dal turismo subacqueo, è facile intuire l’importanza che viene data ai relitti sommersi, vuoi quelli derivanti da tragici naufragi, o quelli affondati intenzionalmente.

Tanto per fare qualche esempio, possiamo parlare del Thistlegorm, un mercantile britannico che prima di essere affondato nel 1941 da un bombardiere tedesco e localizzato poi da Cousteau nel 1955, dagli anni ’90 è diventato uno dei relitti più visitati al mondo, anche se al momento poco raccomandabile visto che giace su un fondale di una trentina di metri nel Golfo di Suez, attualmente teatro di una pericolosa contesa per il suo controllo: un relitto che con la sua articolata struttura è diventato un paradiso anche per la vita sottomarina locale.

La laguna di Truk, in Micronesia ospita i resti della flotta giapponese distrutta dagli americani durante la II guerra mondiale.

E venendo dalle nostre parti potremmo ricordare il relitto della petroliera Haven, uno dei più grandi al mondo, colata a picco nel Golfo di Genova dopo un tragico incendio che causò 5 vittime, e che dagli 80 metri di un fondale fangoso risale fino a circa 40 metri richiamando da anni centinaia di subacquei, ospitando una ricca fauna bentonica.

Non si possono però dimenticare i relitti affondati intenzionalmente secondo una pratica denominata “scuttling” e già piuttosto diffusa anche in Mediterraneo, dove fra Spagna, Croazia e soprattutto Malta i relitti appositamente affondati per offrire oasi di ripopolamento alla vita marina e allo stesso tempo attrazione turistica economicamente rilevante si contano a decine.

Naturalmente, un affondamento intenzionale non viene realizzato a caso, ma segue uno studio ben preciso al quale segue un’attenta bonifica della nave e, successivamente, l’individuazione del punto di affondamento che deve logicamente assecondare lo scopo prefissato. Su una struttura complessa come quella di un relitto, la vita marina, a partire dalle forme sessili per poi proseguire con i vari gradi della piramide alimentare marina, trova un ambiente ideale. Così,  là dove spesso vivono i ricordi di una tragedia, torna a rinascere la vita.

Uno dei numerosi relitti appositamente affondati nelle acque di Malta

Una possibilità impensabile

Premesso che, per quanto avversate dalle associazioni ambientalistiche, le piattaforme petrolifere sono un male necessario, le possibilità offerte da queste strutture ai fini della protezione ambientale sono come detto una medaglia a due facce, con un’inaspettata rivalutazione ai fini del ripopolamento del mare.

In Italia esistono circa 140 piattaforme offshore, la maggior parte delle quali in Adriatico e alcune nel canale di Sicilia, e se molte sono ancora produttive, alcune andrebbero invece dismesse a causa esaurimento del giacimento.

Al di là delle difficoltà connesse allo smantellamento di una costruzione così complessa, va considerato  che molte di queste strutture risalgono agli anni ’60 e sono in molti casi fatiscenti, tanto da aver causato negli anni diversi incidenti a volte a causa di eventi climatici particolarmente sfavorevoli.

Tuttavia è stato ampiamente monitorato che le loro strutture sommerse favoriscono l’insediamento di molte specie sessili e conseguentemente di varie specie ittiche.

Un esempio per tutti può essere quello della piattaforma Paguro, diventata oggi una vera e propria oasi  di ripopolamento e meta di un costante turismo subacqueo. Costruita dall’Agip del 1963 al largo di Ravenna, questa piattaforma esplose nel 1965 collassando sul fondale: oggi quest’area di circa 66 ettari è diventata una zona di tutela biologica e costituisce un importante attrattiva per il turismo subacqueo.

Inaspettatamente si è scoperto che le strutture delle piattaforme petrolifere, sia quelle ancora in funzione sia quelle che adeguatamente bonificate vengono affondate, possono creare un ecosistema intorno a cui la vita marina rifiorisce. Una situazione riscontrabile anche nei nostri mari, in particolare in Adriatico

Se, come detto, qualunque struttura calata in mare può generare un’oasi di vita, le barriere artificiali appositamente studiate e realizzate con l’unione in serie di diversi moduli sono frutto di un attento studio. Il materiale di base è il calcestruzzo, la cui porosità consente l’insediamento delle forme larvali e del substrato di base, mentre il disegno della struttura può essere molto variabile, presentando una serie di cavità e sporgenze in grado di offrire supporto e protezione per le varie forme di vita.

Oggi gli studi e la realizzazione di moduli destinati alle barriere artificiali sono molto avanzati e coinvolgono anche apposite aziende, incluse come abbiamo visto diverse realtà nostrane. Le forme dei moduli possono essere le più svariate e tengono conto sia della situazione ambientale sia delle specie prevalenti nell’area interessata.

Ci possono così essere moduli piramidali, a volte posti persino in posizione invertita ovvero con la base in alto, ma anche moduli globulari, trapezoidali o di disegni più fantasiosi ma specificamente mirati a una determinata specie ittica.

L’impegno per salvaguardare il futuro del mare è sempre più diffuso a livello globale e, per quanto ci riguarda direttamente, ci fa piacere ricordare l’attività dell’italiana Oceanus onlus, un’organizzazione no-profit che fra i numerosi progetti mirati a diffondere la cultura del mare e la sua protezione si è molto impegnata anche nel settore delle barriere artificiali.

In particolare, con l’operazione Mare Nostrum è stato creato un reef artificiale al largo di Budoni, in Sardegna, con il preciso scopo di far rinascere la vita su fondali fortemente depauperati dalle strascicanti. Il progetto è stato realizzato grazie ai fondi FEAMP (Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca) e al contributo della Regione Autonoma Sardegna.

Dalla sabbia alla vita

Oggi, per ampliare l’areale della vita marina, le barriere vengono prevalentemente realizzate su fondali piatti e sabbiosi, creando nuove oasi di vita altrimenti impensabili, e osservare lo sviluppo di una barriera artificiale è come seguire un film che racconta in piccolo l’evoluzione della vita e della biodiversità che ne è alla base.

Così si può osservare come la nuda struttura della barriera inizi dapprima a popolarsi di alghe e microorganismi sessili, per poi accogliere le prime forme di vita mobile, piccoli pesci e molluschi che poco alla volta, in base alla competizione spaziale e alimentare che regola i processi naturali, iniziano ad attirare i predatori, fermo restando il rispetto delle regole di vita e di morte imposte dalla natura

 

La qualità dell’acqua, il gioco delle correnti e il giusto posizionamento della barriera possono ovviamente accelerare o rallentare il processo, e se tutto questo è in primis a beneficio del mare, in seconda battuta torna anche a favore dell’uomo.

Queste oasi di ripopolamento naturale formano infatti una sorta di polmone biologico che si estende anche alle zone limitrofe e che, con il dovuto rispetto delle regole, può soddisfare le esigenze della pesca, sia quella professionale sia quella ricreativa.

Purtroppo va sottolineato che se nel secondo caso l’impatto sulle risorse è minimo e garantito da un’etica di rispetto, nel primo non mancano – anche se occasionalmente – illegalità che se da un lato incidono su un ambiente naturale in via di sviluppo, dall’altro arrivano talvolta a danneggiare le stesse strutture, com’è a volte accaduto con potenti strascicanti che si sono portate via interi pezzi di barriera.

Gli scopi delle barriere artificiali sono ovviamente assai diversi da quelli delle riserve marine, sia per il fatto di essere circoscritte in zone naturalmente limitate, ma anche perché non sono in genere soggette a veri e propri divieti di pesca.

Per altro, il loro posizionamento deve tenere conto di molte varianti, a partire dalla profondità, considerando la possibilità di pericolosi ostacoli alla navigazione, e a seguire con parametri ambientali che potrebbero non essere consoni alle finalità della barriera, vale a dire correnti e moto ondoso, ma anche qualità dell’acqua e luminosità, senza contare le caratteristiche morfologiche del fondo.

Per le strutture artificiali appositamente realizzate o per i relitti da affondare al fine di creare oasi sottomarine, come a Malta, vengono generalmente scelti fondali sabbiosi

Il posizionamento di barriere artificiali all’interno di praterie di posidonia consente ad esempio una colonizzazione più rapida grazie a una maggiore possibilità di  nutrimento per i vari anelli della catena alimentare, ma per lo più vengono scelti fondali sabbiosi e omogenei a profondità medio-basse, le più ricche e diversificate dal punto di vista biologico, in grado di creare un’oasi di ripopolamento laddove prima non esisteva nulla.

La diversità dell’habitat creato da strutture appositamente studiate, oltre a diminuire la mortalità dei giovanili e delle specie più esposte con risvolti positivi sul mantenimento degli stock ittici, finisce con l’attirare specie predatorie di pregio come spigole, dentici, saraghi e via dicendo, normalmente assenti da questi fondali, favorendo così anche la piccola pesca costiera…purché ovviamente si mantenga il rispetto del prelievo.

Allo stesso tempo l’ostacolo di una barriera artificiale finisce per scoraggiare l’azione delle strascicanti, che notoriamente rappresentano uno dei sistemi di pesca più dannosi.