Da Magellano, che forse fu il primo bianco a vedere le barche del Pacifico, sono passati i secoli, ma il fascino della leggendaria barca oceanica non viene meno.Se Carl Von Linné, italianizzato Linneo, il famoso naturalista svedese cui si deve la classificazione dei tre regni della natura e la sistemazione razionale delle specie animali di ogni tipo, esposta nel suo «Sistema Naturae», avesse preso in esame ai suoi tempi anche il variegato mondo (inanimato) delle imbarcazioni da diporto, avrebbe certamente classificato i poliscafi come una specie dalla morfologia inusuale, dalle origini scarsamente note e dalla diffusione in una sola e determinata parte della terra.

Se poi Linneo vivesse oggi, avrebbe la sorpresa di vedere i poliscafi ormai diffusi in ogni specchio d’acqua, dal lago interno all’oceano sconfinato, ma con forme notevolmente diverse da quelle originarie, come se la specie avesse subito uno sviluppo rapidissimo e profondo.

Ma questo è il punto: i poliscafi di oggi sono veramente il risultato dell’evoluzione di quelli antichi, o sono solamente delle imbarcazioni che, basandosi su alcuni elementi originari, sono andate molto più avanti nella scala evolutiva per trasformarsi in un animale (scusate: imbarcazione) completamente diversa e «superiore»?

Questo è un problema che da molti viene dibattuto, e che io chiamo familiarmente «la questione dell’Eredità Polinesiana».

In realtà, l’area geografica sulla quale i primi navigatori o circumnavigatori incontrarono imbarcazioni a più scafi è assai vasta e comprende, oltre alla Polinesia, la parte orientale dell’Oceano Indiano, la Melanesia e la Micronesia. Comunque, poiché la Polinesia ha esercitato un’attrazione fatale su artisti e girovaghi dei tempi moderni, stabilendo una supremazia sentimentale sulle altre zone, chiameremo convenzionalmente tutto il patrimonio tecnico e culturale legato alle antiche imbarcazioni a più scafi «L’eredità polinesiana».

L’incontro tra due mondi

È verosimile immaginare che Magellano, il primo uomo bianco a vedere le canoe polinesiane nel 1521, le valutasse criticamente, biasimandone il basso bordo libero, la semplicità dell’attrezzatura velica e la fragilità.A quei tempi non esistevano certo né le macchine fotografiche, né le onnipresenti telecamere, e la registrazione di paesaggi, persone ed oggetti, era effettuata mediante schizzi o disegni a mano di straordinaria precisione e verosimiglianza.

Grandi esploratori come Wallis, Byron, Cateret e Cook, e il minuzioso Dumond D’Urville (cui giustamente è dedicata una via a Parigi non lontano dall’Etoile), riportarono in patria migliaia di disegni di enorme interesse per conoscere a fondo la struttura e la manovra delle imbarcazioni del passato, senza i quali sarebbe andata dispersa l’eredità polinesiana.

C’è, poi, da sottolineare il fatto che tutti questi artisti erano anche eccezionali osservatori ed esperti navigatori, per cui ogni particolare delle tavole è esatto e non frutto di fantasia; in particolare, la posizione di remi, pagaie, bilanceri e vele era minuziosamente riportata, mostrando le barche nelle varie andature; la direzione del vento vi era sempre indicata o con i disegni delle nuvole, o delle onde, o di parti ornamentali delle barche stesse.

Inoltre, c’erano minuziose descrizioni dei sistemi costruttivi e delle tecniche impiegate.

Ad esempio, il Capitano James Wilson nel 1799 scriveva: “considerando l’enormità del lavoro e la bellezza dell’esecuzione, è stupefacente il fatto che, «senza conoscere il ferro», righe o goniometri, e solo con una buona ascia, l’osso del braccio o della gamba (di un nemico ucciso) come punteruolo e un corallo come raspa, essi possano sagomare così esattamente e levigare così finemente una barca”.

Questo passo è di grande importanza, in quanto ci mostra che le barche polinesiane erano un manufatto «dell’età della pietra».

Ora, l’età della pietra ci ha sì trasmesso attrezzi, utensili e gioielli di insuperabile fattura, come la fionda di Davide, il boomerang e l’arco, ma identifica una civiltà stazionaria, senza progresso, senza tecnologia, senza scrittura e quindi con un patrimonio culturale limitato.

Per questa ragione è difficile datare le imbarcazioni polinesiane (la cui vita era molto lunga), come pure scoprire un’ evoluzione nelle tecniche di costruzione; questo fatto è evidente se si osservano illustrazioni distanti uno o due secoli, che mostrano barche praticamente identiche.

La fonte da cui ho estratto le figure di questo articolo è uno splendido libro noto a tutti coloro che sono appassionati di poliscafi, e che si chiama Polinesia Seafaring; è stato scritto dall’americano Edward Dodd nel 1972. È curioso il fatto che il testo e le figure (che sono ciò che ci interessa) hanno una modestissima relazione tra loro: una storia interessante che ci porterebbe però assai lontano.

Morfologia delle imbarcazioni polinesiane

Le imbarcazioni polinesiane possono essere suddivise in quattro grandi classi, all’interno delle quali, poi, si identificano sottoclassi e varianti.Esse sono: imbarcazioni asimmetriche a due scafi; imbarcazioni simmetriche a due scafi (catamarani); imbarcazioni simmetriche a tre scafi (trimarani); imbarcazioni simmetriche a un solo scafo.

La propulsione, naturalmente, non era unicamente velica, ma anche con remi o pagaie: ad esempio, le imbarcazioni tipiche per le azioni guerresche erano dei catamarani simmetrici senza o con piccole vele.

Questo è un fatto importante, in quanto mostra che tutte le possibili soluzioni coesistevano, e in relazione alle necessità si sceglievano configurazioni diverse.

Naturalmente, data poi l’enorme estensione dello specchio d’acqua sul quale navigavano, di queste barche esistevano innumerevoli varianti, ciascuna tipica di questo o quell’arcipelago.

1) Imbarcazioni ad uno scafo stabilizzato

La foto al centro a sinistra è una canoa di Tahiti disegnata da James Webber, il disegnatore-artista di Cook nel suo terzo viaggio del 1776-1780. L’imbarcazione è costituita da uno scafo principale di tavole, con uno stabilizzatore che è un semplice tronco e due lunghe aste di legno che da una parte sostengono lo stabilizzatore e, continuando sull’altro bordo, permettono di tenere diritto l’albero mediante sartie di fibre vegetali.È evidente che la barca naviga verso sinistra: il timoniere a poppa governa con la pagaia.

La poppa è chiaramente sopraelevata rispetto alla prua, e la tavola mostra incontrovertibilmente che la barca sta navigando in poppa o al lasco: questa è la ragione per cui la prua è così bassa. Anche le grandi navi del ‘600 e del ‘700 avevano, per la medesima ragione, poppe alte sull’acqua e prue assai basse.

La barca può solo fuggire sottovento, e di fatto la poppa evita che le alte onde allaghino il piccolo scafo.

Quindi questa barca non può fare bolina per due ragioni: non ha vele adatte (di taglio) e non ha deriva per contrastare lo scarroccio. In compenso, grazie all’unico scafo, può virare in poppa facilmente, e quindi governare verso sottovento.

Quindi, questa in fondo è simile ad una qualsiasi imbarcazione nostrana senza deriva e con vele da poppa: in termini velici una povera barca, che non può in nessun modo raggiungere un determinato posto indipendentemente dalla direzione del vento.

2) Imbarcazioni a due scafi uguali

La figura in basso a sinistra mostra la forma del catamarano polinesiano tradizionale: ci sono due scafi gemelli uniti da traverse assai simili a quelle della barca ad un solo scafo stabilizzato; gli scafi sono straordinariamente arcuati a poppa, e la direzione si controlla con le solite pagaie. Anche in questo caso la barca può navigare solo alle andature portanti, e le alte poppe hanno una funzione probabilmente più estetica o tradizionale che funzionale: in conclusione, questa barca e la precedente, valutate con il metro moderno, sono delle mediocri realizzazioni in quanto non consentono la più interessante manovra velica, il bordeggio di prua, che consente di risalire il vento.

3) Imbarcazioni simmetriche trasversalmente a scafi disuguali.

Una serie di imbarcazioni, diffuse con piccole differenze in tutta l’area di esistenza dei poliscafi, sicuramente causò una grande meraviglia nei primi navigatori bianchi. Sia nell’area dell’Isola di Tonga, sia in Micronesia (distanti tra loro migliaia di chilometri) navigavano battelli a vela mai visti, asimmetrici nella direzione prua-poppa, e simmetrici rispetto ad un asse trasversale, e cioè esattamente il contrario delle solite imbarcazioni realizzate nel vecchio mondo.Nel Tongaki (barca di Tonga) invece, ci sono due scafi a doppia prua, l’uno più grande e l’altro inferiore di lunghezza e volume. Per il resto, la barca è perfettamente simmetrica trasversalmente, e evidentemente può marciare in entrambe le direzioni. Non è un esempio isolato: la piccola canoa micronesiana (figura in alto) dallo scafo affilatissimo mostra simili linee; vi sono esemplari con lo scafo minore ridotto ad un semplice tronco che confermano la perfetta simmetria. Poiché i Tongaki erano assai diffusi (pare che ce ne siano ancora in attività), sono barche perfettamente note nei dettagli, e quindi possiamo capirne la manovra.

Chiunque vada in catamarano conosce assai bene la difficoltà di far virare di prua questo tipo di barca, anche con grandi timoni; se poi il catamarano non ha la deriva, la virata con onda e poco vento non riesce che raramente.

Ma i polinesiani non conoscevano né la deriva, né il timone, e governavano con le pagaie; anche se gli scafi erano molto più ravvicinati che nei catamarani moderni una virata in prua non riusciva, ed una in poppa faceva perdere troppo cammino verso sopravvento. Quindi inventarono la virata «alla polinesiana», nella quale non si vira per nulla: lo scafo sottovento resta sempre tale e la barca semplicemente inverte la sua direzione di marcia.

Ecco, quindi, che si vede una vera novità, una soluzione geniale alla necessità di bordeggiare per risalire il vento in un modo sconosciuto ai navigatori del vecchio mondo.

Quanto al trimarano, che nel libro di Dodd viene citato in una sola occasione, in realtà ci si trova davanti ad un piccolo mistero, in quanto non si hanno dati consistenti, né reperti, né modelli o disegni originali: verrebbe quindi da pensare che il trimarano non abbia un « pedigree» molto glorioso e che si tratti di una barca più recente, in altri termini una canoa a vela stabilizzata da ambo le parti, diffusa in prevalenza nell’Oceano Indiano.

Le imbarcazioni tradizionali polinesiane

A questo punto siamo in grado di esprimere abbastanza facilmente una serie di giudizi sulle varie imbarcazioni tradizionali degli oceani Indiano e Pacifico, e degli arcipelaghi ad essi connessi.1) Le canoe stabilizzate con un tronco, o le imbarcazioni a due scafi identici (catamarani) con una ben determinata direzione di marcia, sono realizzazioni concettualmente abbastanza povere: l’unico elemento di merito è l’impiego della stabilità di forma in luogo della stabilità di peso tipica delle barche del mondo occidentale. Mancano il timone e la deriva, quindi non è possibile la marcia di bolina e non si può risalire il vento.

2) Le canoe a doppia prua (asimmetriche trasversalmente) rappresentano un’evoluzione originale e intelligente, e associano la possibilità di risalire il vento con bordeggio senza dover ricorrere alla classica virata; soluzione indispensabile, d’altronde, in quanto senza timone e deriva nessuna barca può virare efficacemente e con sicurezza.

Confronto tra poliscafi antichi e moderni

Per istituire un confronto tra i poliscafi antichi e quelli moderni è indispensabile richiamare sommariamente le caratteristiche di questi ultimi. Essi sono il catamarano, il trimarano, il proa (monoscafo stabilizzato), i foiler, e cioè: 1) il catamarano a sostentamento dinamico, 2) il trimarano a stabilità dinamica.Alcuni brevi cenni sulle strutture meno diffuse sono necessari. Il proa è una barca asimmetrica che viaggia con lo scafo ausiliario sottovento, e quindi deve di necessità invertire il senso di marcia; ma esistono alcune varianti, come quello a stabilità aerodinamica che ho trattato mesi fa; in generale sono imbarcazioni poco stabili e difficili da governare.

I foiler sfruttano il sostentamento dinamico prodotto da alette piazzate alle estremità di aste o calettate sugli scafi esterni, ottenendo così, inoltre, una spinta idrodinamica per aumentare la stabilità della barca.

Di fatto, solo i trimarani ed i catamarani hanno caratteristiche veramente favorevoli alla navigazione, e utilizzano principi ignoti o trascurati nei poliscafi polinesiani.

Elementi di merito di un’imbarcazione a vela

Ogni imbarcazione a vela può essere valutata in base alla presenza o assenza di fattori di merito che ne determinano le caratteristiche e le potenziali prestazioni.In ordine cronologico, essi potrebbero essere: stabilità di peso (zavorra), preistoria; stabilità di forma (poliscafi), preistoria; vela a resistenza (solo andature portanti), preistoria; timone, alto medio evo; deriva, probabilmente XV – XVI secolo; vela a portanza (di taglio), XV secolo o dopo; bolina e bordeggio, pinna zavorrata, XIX secolo; stabilità dinamica, XX secolo; sostentamento dinamico, XX secolo.

Ora, se prendiamo in considerazione i poliscafi polinesiani vediamo che, esclusi gli elementi di merito noti fin dalla preistoria (galleggiamento idrostatico e vela a resistenza), i soli fattori innovativi sono la stabilità di forma ottenuta con la soluzione a più scafi e, in minor misura, l’impiego di vele di taglio, capaci di far risalire il vento, e la virata polinesiana, che consente il bordeggio.

Nei poliscafi moderni, invece, entrano altri elementi molto importanti: il timone appeso e la deriva saliente, che danno ad una imbarcazione la stabilità di rotta e la capacità di risalire il vento, le vele di taglio che consentono di risalire il vento con l’andatura di bolina. Infine, soluzioni ancor più innovative si aggiungono a questi fattori: la stabilità dinamica ottenuta con alette poste alle estremità degli scafi laterali, e come ultima possibilità il sostentamento dinamico che permette elevate velocità grazie alla minore resistenza all’avanzamento.

Conclusione

Alla fine di questa galoppata attraverso i secoli ed i vari tipi di imbarcazioni, sembra di dover concludere che non esiste una »eredità polinesiana».In altri termini, tra i geniali ma pur sempre rudimentali poliscafi dei favolosi mari orientali e le sofisticate macchine moderne per la velocità, che ogni giorno superano record ritenuti pochi anni fa impossibili, non esiste alcuna relazione, nonostante innegabili analogie morfologiche e strutturali.

Quindi, per ritornare ai paragoni fatti all’inizio con il mondo animale, la differenza che passa tra un poliscafo polinesiano ad uno moderno ha la stessa profondità di quella che separa un tonno da un delfino, o un uccello da un pipistrello: sembra che si assomiglino, ma in realtà appartengono a mondi lontani fra loro, e si potrebbe giungere a dire che siano, tutto sommato, completamente differenti.