L’affascinante storia dell’evoluzione può nascondere sorprese impreviste, come quella di incontrare sott’acqua un pesce apparentemente estinto da 65 milioni di anni.

Un fossile vivente, semplificando, è una specie animale o vegetale riconducibile per la sua struttura anatomica a specie ritenute estinte. La definizione non appartiene all’autore, ma a un certo Charles Darwin, di professione biorivoluzionario, ovvero quello che ha schematizzato l’origine della nostra specie creando non pochi problemi all’opinione pubblica del suo tempo.

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Sopravvissuti di un profondo passato, aggraziati molluschi come il nautilus (Nautilus pompilius).

Ora, che un fossile vivente sia ancor oggi una realtà non vuole dire ritrovarsi in giardino un Tyrannosaurus rex, se non altro perché esistono fossili viventi assai più aggraziati, ma la cosa ci interessa perché a custodire gli unici testimoni di un passato antico di decine se non centinaia di milioni di anni, se escludiamo i coccodrilli che pur vantano una specie d’acqua salata, è soprattutto il mare, o meglio l’oceano. E la più logica spiegazione è che se i continui cambiamenti ambientali e climatici sulla terraferma hanno portato i vari organismi a continui adattamenti, e quindi alla nascita di nuove specie, l’ambiente oceanico, soprattutto quello abissale, è in paragone molto più statico e immutabile nel tempo.

Sopravvissuti di un profondo passato animali inquietanti come questo squalo dal collare (Chlamydoselachus anguineus).

Belli e brutti

Così frugando nelle profondità oceaniche alla ricerca di creature marine cariche di cotanta eredità, possono venir fuori interessanti sorprese, a partire dal fatto che non tutti questi zombi oceanici sono come detto animali mostruosi e inquietanti.

Il nautilus (Nautilus pompilius), ad esempio, che non ha nulla a che vedere con il sottomarino del capitano Nemo, è uno splendido e ricercato abitante dell’oceano Pacifico e di quello Indiano, con caratteristiche molto particolari. A prima vista sembra solo un normale mollusco con la sua aggraziata conchiglia, ma una prima differenza possiamo notarla osservando che non si tratta di un classico gasteropode come tutti i “conchigliati” a noi noti, ma di un cefalopode, ovvero parente stretto di seppie e calamari, solo che in corso di evoluzione, oltre ad aver perso la classica sacca del nero e le straordinarie capacità mimetiche, ha pensato di portare all’esterno la sua conchiglia (per capirci l’equivalente del classico osso di seppia) e renderla decisamente più attraente.

Tanto attraente, per sua sfortuna, da averla resa un ricercato oggetto d’arredamento e di gioielleria, cosa che incrementandone la pesca ne sta minando la sopravvivenza. C’è però qualcosa di ancora più interessante.

Il nautilus è un animale prevalentemente notturno, che di giorno resta nascosto nelle profondità oceaniche, anche oltre i 500 metri, ma che di notte risale verso la superficie con un sistema che ricorda molto quello dei sottomarini.

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J.L.B.Smith con il secondo celacanto mai catturato. Comore.

Non possedendo una struttura adatta al nuoto, che per altro con appresso quella mole di conchiglia sarebbe alquanto faticoso, questo singolare figlio del passato remoto è infatti in grado di rilasciare un gas azotato che debitamente gestito passa attraverso i setti trasversali della conchiglia interna e va a formare una camera di galleggiamento che, debitamente gestita, gli consente di mantenere costantemente una posizione verticale, e di muoversi su e giù nella colonna d’acqua come, appunto, farebbe un sottomarino.

Questa struttura allo stesso tempo fragile e complessa ha consentito al nautilus di sopravvivere negli ultimi 500 milioni di anni, segno che evidentemente…funziona!

Decisamente meno attraente ma ugualmente degno di interesse è il limulo (Limulus polyphemus), parente prossimo dei granchi ma ancor più di ragni e scorpioni, anche lui carico d’anni dato che l’esemplare fossile più antico finora ritrovato, nel 2008, è stato datato a 450 milioni di anni fa. E va detto che da allora poco è cambiato nella struttura di questo strano artropode corazzato che oggi vive nei bassifondi delle coste americane nordatlantiche. Nonostante il suo aspetto poco rassicurante, questo strano essere ha una caratteristica di estremo interesse non solo biologico ma anche…farmaceutico.

Il sangue del limulo, che a contatto con l’aria diventa di un bel blu intenso, non per discendenze aristocratiche ma semplicemente per l’ossidazione dell’emocianina di cui è ricco, è infatti in grado di coagulare in presenza di “pirogeni”, ovvero potenti sostanze tossiche che entrando accidentalmente in circolo nel nostro sangue possono provocare forti stati febbrili fino ad arrivare a shock e morte.

Il sangue del limulo, con le sue particolari caratteristiche, è alla base di un test (LAL/ Lisato di Amebociti di Limulo) al quale vengono sottoposti molti farmaci, inclusi i più recenti vaccini anti-Covid, ma in alcuni casi anche acqua e materie prime, per evidenziare l’eventuale presenza di endotossine o dei pirogeni di cui sopra, e la sua importanza nel settore biomedico e farmaceutico l’ha portato ad essere una specie protetta e tutelata. Durante i pleniluni primaverili, i limuli risalgono le spiagge per depositare le uova nella sabbia (una singola femmina può depositarne fino a 80.000), dato che possono sopravvivere in aria per alcune ore, e proprio in questo particolare frangente vengono raccolti, portati in laboratorio, messi in batteria e sottoposti a salasso per prelevare il loro prezioso sangue blu.

Prezioso non solo per modo di dire, dato che un litro di sangue di limulo può arrivare a costare 18.000 dollari. In ogni caso, per buona pace degli animalisti, dopo il trattamento i limuli vengono contrassegnati e rilasciati nuovamente in mare, anche se poi non tutti sopravvivono.

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Non ha sicuramente un aspetto rassicurante, ma è difficile incontrarlo in mare essendo una specie che vive oltre i 200 metri di profondità. Pur non essendo una rarità, lo squalo goblin (Mitsukurina owstoni) è anche lui un fossile vivente.

L’orrenda meraviglia

Fermo restando che gli stessi squali, ma anche gli storioni, possono essere considerati fossili viventi – soprattutto alcune specie abissali come lo squalo goblin (Mitsukurina owstoni) o lo squalo dal collare (Chlamydoselachus anguineus), dato che i primi antenati della specie risalgono a circa 400 milioni di anni fa e che da allora non sono cambiati granché – e fermo restando che esistono altri fossili viventi meno spettacolari ma comunque significativi, non potendo fare un trattato di paleobiologia possiamo però dedicarci alla vera star dei fossili viventi: il celeberrimo celacanto, un pesce che merita un capitolo a parte anche per la storia della sua scoperta e per le sue caratteristiche strutturali che lo portano più vicino agli anfibi che ai pesci.

In realtà, per la scienza, più che essere un fossile vivente il celacanto è un fossile resuscitato, dato che fino al giorno della sua riscoperta, nel 1938, lo si credeva del tutto estinto insieme ai dinosauri da ben 65 milioni di anni. Ed è invece bello pensare che questo pesce, presente negli oceani da ben prima del cretaceo, gironzola ancor oggi nel suo angolo di oceano portandosi sulle spalle decine se non centinaia di milioni di anni con la disinvoltura di un pesce qualsiasi.

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La cartolina della scoperta del celacanto con i suoi protagonisti: Marjorie Courtnay-Latimer, il museo di East London di cui era curatrice e il peschereccio Nerine.

E volendo parlare del celacanto e della singolare storia delle sua scoperta, si può cominciare dall’inizio, ovvero dalla spiegazione del suo nome scientifico che già ci dice molto. Latimeria chalumnae smith racchiude infatti l’estrema sintesi della storia. Il nome del genere deriva infatti in primis da quello della sua scopritrice, Marjorie Courtenay-Latimer, curatrice del piccolo museo di storia naturale di East London, in Sud Africa.

Chalumna è invece il nome del fiume al largo del cui estuario fu pescato il primo esemplare del resuscitato celacanto, il 22 dicembre del 1938, e smith si lega a James Leonard Brierley Smith, l’ittiologo che fece di tutto e di più per arrivare a salvaguardare e classificare quel primo preziosissimo esemplare. Ma come andarono le cose?

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La locandina che prometteva una ricompensa di £100 a chiunque avesse catturato un celacanto.

Un’incredibile storia

Molte straordinarie scoperte sono avvenute per caso, e il ritrovamento di una specie animale ritenuta estinta da 65 milioni di anni non fa eccezione. Un ritrovamento quindi casuale che può essere interessante seguire in cronaca… necessariamente indiretta.

La struttura del celacanto lo pone come un possibile anello di transizione evolutiva. Le sue pinne lobate, infatti, sembrano preludere a dei futuri arti, così come la presenza di un primordiale polmone fa pensare a futuribili ambizioni aeree.

Siamo nel 1938, e Marjorie Cournay-Latimer è, come detto, la conservatrice del piccolo museo di storia naturale di East London, cittadina portuale della provincia del Capo, in Sud Africa. Il museo non dispone di grandi fondi e Marjorie fa un po’ di tutto, compreso il procurarsi nuovi esemplari per il museo, in particolare esemplari di vita marina che recupera attraverso un accordo con i pescherecci del luogo.

La sua passione incontra le simpatie dei locali, che collaborano volentieri e che spesso le procurano specie poco note alla scienza ufficiale. Fra i pescatori è soprattutto Hendrik Gossen, comandante dei Nerine, ad assecondare le ricerche di Marjorie, e il 22 dicembre 1938 il suo peschereccio approda ad East London con il consueto carico di squaletti, scorpenidi e pesci vari da avviare al mercato, avendo messo da parte in un angolo della barca tutti quei pesci che non avrebbe venduto, nel caso potessero interessare Marjorie.

Alle dieci e mezzo di mattina, Gossen chiama il museo per comunicare che ci sono un po’ di pesci che ha lasciato sul peschereccio per la curatrice, ma siamo sotto Natale e, impegnata con gli addobbi del museo, Marjorie non ha molta voglia di mettersi a trafficare con altri pesci che per altro al momento non saprebbe dove mettere. Le sembra però doveroso incontrare i pescatori per gli auguri natalizi. Scende quindi al porto, ma quando arriva i pescatori sono già andati a casa. A bordo è rimasto solo un vecchio scozzese, che però le mostra quello che Gossen le aveva messo da parte: squaletti, razze, stelle marine, piccoli serranidi, in pratica niente di interessante, almeno finché Marjorie non scorge una strana pinna che spunta dal fondo del mucchio.

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Le uniche due specie oggi conosciute del celacanto sono praticamente identiche, salvo per il colore della livrea – blu quella sudafricana, brown quella indonesianae per qualche micro variazione del DNA.

Scosta gli altri pesci e appare un animale mai visto prima, lungo circa un metro e mezzo, e splendido nella sua livrea blu macchiata di argento. “Lo abbiamo preso strascicando su un fondo di 70 metri, 5 miglia al largo della foce del Chalumna”, ricorda lo scozzese, ”18 miglia a Sud-Ovest di East London”. Marjorie capisce che quello strano pesce, per altro viscido e puzzolente, potrebbe essere importante, lo avvolge in un lenzuolo, chiama un taxi, fatica non poco per convincere il conducente a prenderlo a bordo, e lo porta al museo. Inizia così la storia di quel pesce che di lì a poco avrebbe conquistato le prime pagine di tutti i giornali.

Ma quello era in fondo solo l’inizio. Nessuno conosce infatti quella strana creatura che non assomiglia ad alcuna specie nota e ha caratteristiche fisiche tanto insolite: presenta infatti otto pinne, di cui quelle pari poste al termine di una base lobata quasi simile a una zampa, mentre la pinna caudale è del tutto simmetrica ma con un lobo mediano sporgente. Per altro fa caldo, il pesce inizia a deteriorarsi e a trasudare olio e, benché Marjorie sia pratica di conservazione, non ha un contenitore adatto per quella misura. Si rivolge allora prima ad un negozio di frigoriferi, poi all’obitorio del comune, ma nessuno accetta quell’insolito animale.

Marjorie è però tenace, si fa prestare un carrello, carica il suo pesce e attraversa la città per portarlo da un tassidermista cercando di salvare il salvabile. E mentre il pesce viene ricoperto di stracci imbevuti di formalina, spedisce un disegno approssimativo a J.L.B. Smith, il più famoso ittiologo sudafricano: solo che siamo in periodo di vacanza, Smith vive Grahamstown, a 350 chilometri di distanza, e la lettera arriva a destinazione dopo oltre una settimana. Smith capisce tuttavia di essere di fronte ad una scoperta eccezionale, “Mi scoppiò una bomba nel cervello”, disse poi, e dopo una breve indagine si convince di avere a portata di mano la scoperta zoologica del secolo: quel pesce non poteva essere altro che un celacanto, un pesce scomparso anche a livello fossile da oltre 65 milioni di anni.

Questa è solo la prima ma sicuramente la più insolita parte della storia della scoperta della Latimeria chalumnae smith, nome scientifico che fu dato al celacanto in onore dei suoi scopritori. Il seguito vede lo scetticismo del mondo accademico, poi l’affermazione definitiva di cui parlarono tutti i media di allora, ma anche la pervicacia di Smith nel non considerare occasionale quella cattura. Si mise infatti a battere a tappeto tutti porti della costa e fece perfino stampare e diffondere una locandina che prometteva una ricompensa di 100 sterline a chiunque gli avesse procurato un pesce simile. Ci vollero tuttavia ben 14 anni prima che un cablo giunto a dicembre del 1952 dalle Isole Comore, al tempo possedimento francese, annunciasse la cattura di un altro celacanto, per fortuna da parte di un pescatore ben istruito sul cosa fare, che comunicava di averlo sotto formalina ma che occorreva velocizzare il recupero.

E se dicessimo che Smith riuscì a convincere il Primo Ministro sudafricano a concedergli l’uso di un aereo militare per raggiungere le Comore, e che quando l’aereo fece scalo a Mozambico e fu chiesto lo scopo della missione e il pilota disse “Stiamo andando a prendere un pesce” fu mandato a quel paese, avremmo solo aggiunto un’ulteriore tessera all’incredibile storia del celacanto.

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Incontrare nel suo ambiente un pesce appena uscito dalla preistoria è un’emozione indescrivibile, ma parliamo di immersioni difficili.

Il celacanto oggi

Il celacanto ha un indubbio e preziosissimo valore zoologico, essendo il più antico pesce vivente oggi conosciuto, ma non ne ha alcuno dal punto di vista commerciale essendo la sua carne al limite dell’immangiabile. E’ tuttavia una specie considerata dallo IUCN (International Union for the Conservation of Nature ) “critically endangered”, ovvero in pericolo di estinzione a causa delle catture accidentali dei pescherecci che oggi sono in grado di strascicare con le loro reti anche ad alta profondità. Pochi invece i suoi nemici naturali, e allo stadio adulto gli unici predatori del celacanto sono in realtà gli squali: in altre parole il celacanto fa una vita piuttosto tranquilla, tanto da superare facilmente i 60 anni di età e di arrivare probabilmente al secolo. D’altro canto se si considera che raggiunge la maturità sessuale intorno ai 55 anni e che dal concepimento al parto ne passano altri cinque, è facile capire quanto delicata sia la sua sopravvivenza.

Il celacanto resta in ogni caso un predatore, anche se non di vertice dato che è un pessimo nuotatore, e che ama cacciare prevalentemente di notte riuscendo a catturare prede anche di notevoli dimensioni grazie alla particolarità di un giunto intercraniale che gli consente di separare e muovere indipendentemente le due metà del cranio, ampliando a dismisura la sua bocca.

Di giorno il celacanto preferisce restare al riparo delle grandi caverne vulcaniche presenti sul fondale su profondità varianti fra i 150 e i 200 metri, spesso anche in piccoli gruppi, ma occasionalmente, soprattutto la specie indonesiana, può risalire fino agli 80-100 metri seguendo l’isotermica dei 18° che sembra essere la sua temperatura preferenziale.

La precisazione ha un suo perché, dato che per quanto se ne sa oggi la presenza del celacanto è localizzata in due sole aree: la zona sud orientale dell’Oceano Indiano (Sud Africa, Madagascar, Tanzania, Mozambico, e soprattutto Arcipelago delle Comore) e quella indonesiana orbitante intorno al Mar di Celebes, Papua, e all’isola di Sulawesi. Va notato che la specie indonesiana fu scoperta solo nel 1997 dall’americano Mark Erdmann, biologo marino in felice luna di miele, quando capitato per caso in un mercato del pesce vide una strana e misteriosa creatura che accese la sua fantasia e che non tardò a classificare, soprattutto quando l’anno successivo gli fu portato dai pescatori un altro esemplare lungo 1,20 metri e del peso di 29 kg. La Latimeria menadoensis, come Erdmann battezzò questa specie che si differenziò da quella africana 30-40 milioni di anni fa, è identica al celacanto delle Comore salvo per il colore della livrea, più sul marrone che sul blu, e per alcune micro variazioni del DNA: eppure siamo a 10.000 miglia dalle coste del Sud Africa!

Nessuno però era riuscito ad osservare un celacanto vivo nel suo ambiente, almeno finché nel 2000 quattro subacquei di grande esperienza (Pieter Venter, Gilbert Gunn, Christo Serfontein e Dennis Harding), guidati da Peter Timm e attrezzati con bombole e miscele trimix scesero più volte al largo della baia di Sodwana, in Sud Africa, a profondità oscillanti fra i 105 e i 115 metri riuscendo alla fine a localizzare e a filmare per la prima volta al mondo un celacanto vivo nel suo ambiente. In seguito Timm avviò un diving che fra le altre cose organizzava immersioni riservate agli esperti mirate proprio all’incontro con il celacanto, e difficile pensare a un’immersione più emozionante di quella che ti porta ad incontrare un fossile vivente nelle profondità oceaniche.

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Un limulo, comparso sulla Terra 450 milioni di anni fa.

Stiamo tuttavia parlando di discese che oltre ad essere effettuate in condizioni tutt’altro che agevoli (partenza dalla spiaggia con un gommone, mare spesso formato, e zona battuta da forti correnti) richiedono una grande esperienza sulle miscele trimix (ossigeno, azoto ed elio), un’attrezzatura di grande affidabilità e un team di assistenza pronto ad ogni evenienza. In altre parole, l’esperienza è unica ma i rischi non vanno sottovalutati. E purtroppo nel 2014 lo stesso Peter Timm, nel corso di un’immersione, perse la vita cercando di aiutare la sua compagna in difficoltà. In seguito sono stati filmati altri celacanti. Alcuni esemplari furono ripresi nel 2019 a soli 69 metri di profondità e, nel 2002, Hans Fricke, a bordo di un mini sottomarino, riuscì a filmare nella stessa zona ben 15 esemplari riuscendo anche ad identificare una femmina gravida e a raccogliere alcuni campioni di tessuto.

La storia del celacanto, considerato un precursore degli odierni tetrapodi, uomo incluso, ci pone una logica domanda: come ha fatto questa specie a sopravvivere alla catastrofe del cretaceo, meteorite o cataclisma climatico che fu, o entrambi, in cui scomparve dalla faccia della Terra l’80{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} delle specie viventi, dinosauri inclusi? Forse solo perché le profondità marine ne consentirono la sopravvivenza? Ai posteri l’ardua sentenza, potremmo dire, considerando che il celacanto è a tutt’oggi fonte di studio e che alle tante domande si sono finora date solo poche risposte.

Anatomia di un fossile… vivente

Il celacanto può arrivare ai due metri di lunghezza per 90-95 chili di peso, e diverse sue caratteristiche fisiologiche hanno poco in comune con il mondo dei pesci.

A partire dalle modalità di riproduzione e, in particolare, dal fatto di sviluppare poche uova e di partorire i propri piccoli già formati e autonomi, cosa non proprio comune se non in diverse specie di squali. Si potrebbe poi aggiungere la presenza di un primordiale polmone non funzionale che mette il celacanto in relazione con i pesci polmonati d’acqua dolce (Dipnoi), e una colonna vertebrale non del tutto sviluppata.

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Fossile di celacanto

Fra le più evidenti caratteristiche fisiologiche del celacanto, quella che colpisce di più a prima vista sono indubbiamente le sue quattro pinne lobate, che sembrano decisamente le precorritrici delle nostre future articolazioni e che gli consentono di nuotare sia in avanti sia all’indietro.

Altrettanto singolare è la grande pinna caudale, trilobata e di forma pressoché unica nel mondo dei pesci, così come le spesse e robustissime squame ctenoidi, usate dagli abitanti delle Comore anche come attrezzo per levigare, che formano una corazza dall’aspetto decisamente preistorico.

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Dettaglio squame e pinna lobata

Da notare che attraverso queste squame il celacanto secerne un muco oleoso fortemente lassativo, cosa che contribuisce allo scarso valore commerciale della sua carne. Il suo ristretto habitat farebbe inoltre pensare a specifiche esigenze biologiche, ma se questo non è ancora del tutto chiaro è invece nota la ristretta distribuzione delle due uniche specie oggi conosciute: Latimeria chalumnae e Latimeria menadoensis rispettivamente suddivise fra l’area dell’Oceano Indiano sud occidentale e alcune isole indonesiane.