MOITESSIER, IL MARE NELL’ANIMA
Bernard Moitessier Una leggera risacca fa beccheggiare il “Joshua” lentamente. La barca di Bernard Moitessier tira su la prua con dolcezza ogni volta che un’onda leggerissima e impercettibile arriva per spegnersi contro le banchine del porto. L’ha voluto qui al Museo Marittimo di La Rochelle Patrick Schnepp, il direttore, che l’ha acquistato qualche anno fa da alcuni giovani ai quali Bernard Moitessier lo aveva regalato dopo che finì spiaggiato su un litorale della Baja California, in Messico. Spinto da un tifone mentre, ironia della sorte, si trovava all’ancora. Quasi una beffa per Bernard che con quel suo fragile guscio aveva attraversato indenne le tempeste più difficili nei mari più duri e spettacolari del mondo. I segni di quel naufragio sono ancora visibili sullo scafo in ferro del vecchio ketch rosso e nero: qualche generosa ammaccatura che si è preferito lasciare così, pur nel completo restauro del “Joshua”, operato dal museo di La Rochelle.

È stato lo stesso Patrick Schnepp, due anni fa, a portare il “Joshua” fino al porticciolo di Bono, in Bretagna, lì dove è sepolto Bernard Moitessier: perchè alla sepoltura fosse presente anche lui, “il vecchio amico”, l’imbarcazione con la quale Bernard ha navigato la sua avventura. Fa una certa impressione vedere questa barca – che in Francia è considerata un monumento nazionale, giustamente – così diversa dai moderni e velocissimi scafi che oggi solcano gli oceani. Niente concessioni al superfluo, tutto ridotto all’essenziale. E spesso frutto di recuperi e adattamenti, arte nella quale Moitessier era maestro.

I pulpiti e la battagliola in ferro verniciato, per esempio, le sartie ricavate da cavi d’acciaio e impiombate spartanamente. E poi il minuscolo pozzetto, con la piccola ruota del timone e i semplici rinvii alla barra del timone. Fa impressione pensare che in quel pozzetto minimo, pressochè indifeso, si sono abbattute tonnellate d’acqua, le montagne di frangenti degli oceani del Grande Sud, che Moitessier è stato capace di raccontare nei suoi libri in tutta semplicità, quasi siano alla portata di tutti.

Duemila metri quadrati d’esposizione al coperto, più un grande bacino portuale dove sono ormeggiate sette barche storiche della marineria francese, oltre a un buon numero di velieri d’epoca, vuoi di proprietà del museo, vuoi di appassionati che (magari in cambio di un ormeggio sicuro) hanno gentilmente messo a disposizione la propria barca. La storia peschereccia di questa bellissima (e orgogliosa) regione atlantica francese, La Charente Maritime, famosa tra l’altro per i suoi frutti di mare, ostriche prima di tutto, quella di una cittadina marinara d’epoca medioevale, che ha le sue radici nel X secolo: tutto questo è il Museo Marittimo de La Rochelle, che vanta una sala cinematografica, una dotatissima biblioteca, che organizza gallerie d’arte, esposizioni fotografiche.

È insomma il cuore di questa città, ben nota per la sua tradizione velistica, che nei diversi bacini portuali vede all’ormeggio circa 4000 barche. Ma che, ad onor del vero, e soprattutto per rincuorare quei diportisti nostrani, spesso ossessionati dal mito d’oltr’alpe dei marinai atlantici duri e puri, lasciano gli ormeggi in media per soli 15 giorni l’anno. E per navigare pochissime miglia: il breve tratto di mare che separa La Rochelle dalla dolcissima Ile de Rè, una delle due isole che si trovano appena di fronte. Un’ampia lingua di sabbia piatta e coltivata, a terra come in mare, dove abbondano le colture di ostriche: “claires et fines”.

Ma La Rochelle è in ogni caso una capitale della vela per eccellenza, il porto di partenza di molte regate oceaniche, la sede dei cantieri che costruiscono i catamarani oceanici più noti e veloci, e che tanto sono l’orgoglio della moderna marineria francese. Il luogo dove, per esempio, si può incontrare casualmente Isabelle Autissier, la velista solitaria francese, ed essere invitati a fare un giro in barca con lei. A bordo di una magnifica goletta aurica, un progetto del 1927 realizzato nel ’93. E che è, naturalmente, ormeggiato al museo.

Lo ricordo prendere un caffè in un bar del centro, a Roma, quando improvvisamente mi sembrò di trovarmi a rileggere una pagina dei suoi bellissimi libri di mare, i racconti delle esperienze di navigazione intorno al mondo. Pareva proprio di vederlo lì, in cabina, accanto al timone interno del “Joshua”, mentre tirava fuori tabacco e cartine, arrotolava una sigaretta e, con calma, assieme al caffé fumante, assaporava lunghe boccate di tabacco nero. Decine di volte avevo letto questa descrizione nei suoi libri: era come un rito che ogni volta celebrava il buon vento, le piccole soddisfazioni, la navigazione con quel suo fragile guscio nei mari più belli ed infidi del mondo.

Bernard Moitessier, il marinaio delle lunghe rotte in solitario, dei giri del mondo senza scalo, il profeta della navigazione a vela, instancabile cercatore d’orizzonti. In molti hanno scritto libri di mare, molti hanno raccontato delle loro avventure a vela per gli oceani, di difficili tempeste, infinite solitudini, ma nessuno come Moitessier, francese, è riuscito a scrivere pagine ricche di sensibilità e a lasciar trasparire l’uomo che, quasi involontariamente, ha nel mare la propria metafora di vita. Il marinaio dalla pelle bruciata al sole, le mani forti e incallite, raffinato scrittore.

Ad un’intera generazione di naviganti “on the sea”, che nel bene e nel male hanno seguito il suo esempio, Moitessier ha trasmesso i brividi per la navigazione, raccontato e mostrato, come un Kerouak impregnato di mare, i vagabondaggi nei mari lontani, le inquietudini dell’uomo, le lunghe galoppate mozzafiato per gli oceani, le innocenti libertà, il sottile sapore di semplici verità. Non è l’unico marinaio né il primo ad essersi avventurato per mare con una piccola imbarcazione a vela.

In tempi recenti, poco prima che Moitessier realizzasse nel 1969 il suo giro del mondo senza scalo, altri, come l’inglese Francis Chichester, avevano compiuto l’impresa, e già era gloria di Francia il talento di Eric Tabarly, il quale vinceva le più importanti regate oceaniche per solitari. Ma l’inglese aveva navigato a tappe, si era fatto costruire una bellissima imbarcazione di 16 metri dotata di tutti gli accorgimenti tecnologici, di una radio per comunicare anche a 7000 chilometri di distanza, e persino di una pompa a pressione per la birra alla spina.

E Tabarly incarnava già il nascente professionismo delle regate a vela. Riottoso ad ogni complicato sofismo, per vocazione necessitato a navigare “lontano dai falsi dei del mondo civile”, fuori del mondo e fuori del tempo, Moitessier rimane personaggio diverso, tutto a sé. Un artigiano squattrinato, un idealista vagabondo che arma il suo ketch di 12 metri, “Joshua” appunto, con quello che gli altri buttavano via, con un palo telegrafico come albero per la vela, sicuro che un palo è la cosa più robusta che ci sia. Niente motore, niente gabinetto, una lampada ad acetilene a fatica sostituita con una a ricarica solare. Una fionda con cui lanciare messaggi alle navi che casualmente incontra sulla sua rotta e, alla quale, poi, presto rinuncia.

Il mare come l’aria da respirare, la barca una seconda pelle: il ritmo dei giorni lontano da terra, le semplici regole di una natura che riapre il cuore e il pensiero ad immagini dimenticate, assorbite dalle ruggini di sempre. Un avventuroso viaggio di nozze compiuto a vela, nuotando in acque d’incanto sul dorso delle tartarughe delle isole Galapagos, esplorando ogni più minuscolo atollo di quel paradiso di isole che è il Pacifico e, infine, una rotta “logica” quanto insolita per riportare a casa la novella sposa Francoise: a cavallo dei “50 urlanti” di Capo Horn, il più temibile dei mari, incubo e miraggio di ogni navigante, museo sommerso delle barche di ogni epoca.

Ma è un gesto, un’impresa in particolare a consacrarlo definitivamente all’altare dei profeti delle genti di mare: è quando, nel 1968, partito da Plymouth, in Inghilterra, per la più dura e difficile regata, senza scalo, in solitario intorno al mondo, dopo aver quasi concluso la sua fatica e doppiato i grandi capi di Buona Speranza, Leeuwin e Capo Horn, pressoché vincitore della competizione, Moitessier decide di abbandonare e ritirarsi. Manda tutti al diavolo, rinuncia al premio di 5 mila sterline che lo attende in Gran Bretagna, ad una coppa d’oro, e prosegue senza scalo per un altro mezzo giro del mondo.

Di nuovo l’Atlantico, il Capo di Buona Speranza, l’Oceano Indiano, l’Australia, il Pacifico. È il gran rifiuto: gli onori, la cronaca, i soldi, il mondo dei compromessi. “Continuo senza scalo verso le isole del Pacifico – scriverà nel suo diario – perché in mare sono felice e forse anche per salvarmi l’anima. La storia adesso è fra il “Joshua” e me, fra me e il cielo – aggiunge – una bella storia tutta per noi, una grande storia d’amore che non riguarda più gli altri”.

Il viaggio prosegue, la scia alle spalle del Joshua si allunga, di giorno bianca e densa di vita, di notte luminosa “come una chioma di sogni e di stelle”. Ma non corre verso l’infinito Moitessier, lontano da tutto e da tutti. Ha una meta. Quel vento, le immense onde dell’oceano oramai gli si agitano dentro fragorose, una dietro l’altra: la navigazione ora è rivolta verso di sé, come un viaggio nella propria coscienza. La metafora prende corpo, l’impresa di mare, l’affascinante avventura per gli oceani non consiste più nel far filare leggero e sicuro il suo “Joshua”, ma di plasmare armoniosamente quel vortice misto di amore, misticismo e felice follia che lo pervade.

“Il tempo è bello, la scia si srotola dolcemente”, scrive ancora.” Guardo il mare ascoltando la nota cantata dalla prora. E vedo un piccolo gabbiano posato sul mio ginocchio. Non oso muovermi. Non oso respirare per la paura che prenda il volo e non ritorni più. È bianchissimo, quasi trasparente. Mi guarda lisciandosi le penne. E sembra che i suoi occhi parlino…E mi parla, e in quel momento capisco che non è un miracolo ma una cosa del tutto naturale. Mi racconta la storia del Bel Veliero carico di esseri umani. Delle centinaia di milioni di esseri umani”…

Molti pensarono che gli avesse dato di volta il cervello. Bernard sparì dalla circolazione e per un bel pò non si ebbero più sue notizie. Fino a quando, improvvisamente, 36 mila sindaci ed i giornali di mezzo mondo si trovano tempestati dalle lettere di Moitessier che avverte: “Il Mostro ci dice correte, correte, non fermatevi a pensare. Per voi penso io, il Mostro. Correte verso il destino che vi ho segnato, correte senza fermarvi fino in fondo alla strada dove ho collocato la Bomba, oppure l’abbrutimento totale dell’umanità”. Per poi aggiungere: “Noi sprechiamo un immenso potenziale di risorse fisiche e d’intelligenza creatrice in armamenti. Fortune colossali che dovrebbero essere utilizzate per mille cose utili al bene di tutti. C’è da credere che siamo proprio dei disabilitati mentali. Un industria di guerra può convertirsi in industria di pace, tutto il mondo lo sa”.

Aveva toccato il fondo del mare Bernard, veleggiato nei liberi pensieri, nella sua verità. Era la sua “piccola rivoluzione”, come la chiamava lui: le lettere vennero pubblicate da Le Monde, Le Figaro e Le Nouvel Observateur. Con la “grande rivoluzione”, invece, aveva tentato di sensibilizzare persino il Papa e gli Amici della Terra ai quali metteva a disposizione i proventi della vendita dei suoi libri, perché l’aiutassero nel suo messaggio di pace. Ma con scarso successo.

La vera rivoluzione, però, Moitessier l’aveva compiuta dentro di sé. “Dentro me stesso – diceva durante il nostro incontro – verso qualcosa che ho visto chiaro dentro di me e che ora non posso far finta non ci sia”. E si riprometteva di scriverlo in un nuovo libro, quel “Tamata e L’Alleanza”, che è oggi divenuto il suo testamento spirituale, l’ultima fatica, il racconto di una vita: della gioventù vissuta in Vietnam, quando ancora si chiamava Indocina, delle risaie allagate, delle sue barche, dei suoi viaggi. Dentro non vi si trova nessuna risposta, se non quella che Bernard dava a se stesso, con la consueta passione per la vita, lo stesso amore, lo stesso desiderio di vivere fino in fondo.

Un lavoro che l’aveva impegnato più del previsto, con l’editore che ha atteso paziente gli anni che Moitessier divideva tra il suo rifugio di Rajatea, in Polinesia, dove gli era difficile scrivere (per via del sole e degli amici, diceva; ma anche perchè oramai minato dal male che doveva stroncarlo) e lo studio di Parigi, dove lavorava. In polinesiano Tamata, che è anche il nome che Moitessier aveva dato alla sua ultima barca (sempre con un palo del telegrafo come albero), vuol dire “tentare”. Tentare l’Alleanza che è dentro di noi, come sosteneva.

Da qualche parte ho ancora gli appunti con i quali, in quell’incontro di Roma, con una scrittura quasi infantile, Bernard si era messo a disegnare e a spiegarmi la sua teoria dei macachi, degli scimpanzè; o, se volete, dell’Alleanza. Di un mondo, cioè, se non proprio immaginato come quello del latte e del miele, quantomeno solidale e in pace, consapevole della vera natura dell’essere umano. “Gli uomini macachi”, diceva,” stanno lì, intorno a quest’enorme tronco d’albero che devono muovere in qualche modo.

Hanno prima provato a sollevarlo, ma senza successo; poi gli hanno legato intorno delle liane per tirarlo via, ma inutilmente. E non ci sono riusciti nemmeno quando le liane sono diventate di acciaio, di carbonio, di titanio. Hanno provato a mettergli le ali, poi, a questo tronco; un motore, comandi elettronici, ma non si è mosso: non si è spostato nemmeno di un centimetro. E anche scimpanzè straordinari ed evoluti come Michelangelo, per esempio, che pure l’ha dipinto in tutti i modi, non ci sono riusciti. “Ecco – spiegava Moitessier – basterebbe solo farlo rotolare questo benedetto tronco…”.

Lo spiegava seduto sui gradini della chiesa di Santa Maria in Montesanto, a piazza del Popolo, quasi accovacciato per meglio poter disegnare. Avevamo passato quasi due ore così, a chiacchierare, con la città che ruggiva intorno. A un certo momento, mentre Bernard tirava nuovamente fuori tabacco e cartine dalla sua bisaccia a tracolla, io mi ritrovai a fissare questo marinaio in città, coi sandali da francescano ai piedi, i capelli arruffati, un uomo che aveva navigato ben oltre il mare dei luoghi comuni. Quasi avesse intuito qualcosa nei miei pensieri, mi guardò negli occhi e con molta serenità mi disse: ” No, non rischio più di spingermi troppo o non abbastanza lontano: perchè prima il sogno è andato fino in cima al sogno… e poi ha oltrepassato il sogno. E ora si deve tentare”.

Mi sembra, allora, di rivederlo, adesso, intanto che il “Joshua” dondola lento (e chissà, forse malinconico) all’ormeggio, di nuovo in una sua pagina di bordo, in quei racconti che fanno sembrare gli oceani e la vita il facile gioco di un uomo che veleggia felice i suoi sogni, mentre dice al Capo di Buona Speranza appena doppiato: ” Senti un pò Buona Speranza, adesso ho capito perché hai il braccio così lungo… ti deve servire a meraviglia per grattarti il sedere, eh?”.