Visitiamo le tre collezioni europee che, grazie a ritrovamenti fortuiti, illustrano in modo spettacolare come gli antichi Romani costruivano e governavano le loro navi.

Il mare Mediterraneo conserva i resti di un numero notevole di imbarcazioni romane. Spesso, tuttavia, quello che gli archeologi ritrovano sui fondali è solo qualche pezzo informe di fasciame o di chiglia, elementi che non si prestano a una facile lettura da parte dei profani.

Molti siti di antichi naufragi presentano così l’aspetto di ammassi di anfore, contenitori “tuttofare” che dovevano rispondere a precisi requisiti per il trasporto e che obbedivano a criteri di produzione di massa e di standardizzazione(1). Il loro studio, tuttavia, se da una parte offre interessanti indicazioni sul carico della nave e sulla sua provenienza, dall’altra non ci dice molto sulle forme e sulle caratteristiche degli scafi.

Ecco, dunque, che un primo approccio al tema della navigazione romana è costituito dalle collezioni di navi presenti in alcuni musei di Germania, Francia e Italia. La conservazione relativamente buona delle essenze lignee dei loro scafi è dovuta al fatto che non sono stati ritrovati in fondo al mare o al fiume, bensì sepolti sotto terra. Ciò ha permesso di salvare dalle ingiurie del tempo non solo il fondo e le chiglie, come avviene comunemente per le imbarcazioni antiche recuperate in mare, ma anche alcuni elementi delle fiancate e persino delle strutture dei ponti.

Il nostro itinerario può partire dal Reno, un fiume che per secoli ha rappresentato una parte essenziale del limes dell’Impero, per concludersi a Ostia, il grandioso porto dell’Urbe dove convergeva la rete dei traffici commerciali del mondo romano.

Va specificato che il limes europeo dell’Impero era costituito da due sezioni fluviali, il corso del Reno e quello del Danubio, che erano collegate per più di 500 chilometri da una frontiera terrestre, presidiata da una complessa catena di forti, torri di avvistamento, trinceramenti e fossati. L’odierno atteggiamento culturale del mondo germanico nei confronti di questi siti si può misurare dal fatto che molti di questi sono stati restaurati, mentre sono state allestite delle ricostruzioni di alcuni dei forti più importanti. Nel 2005 i resti del limes germanico superiore e retico sono stati così iscritti nella lista dei siti del patrimonio mondiale dell’UNESCO, sotto il nome di Frontiere dell’Impero romano.

L’ingresso del Museo di Mainz

La prima tappa di questo nostro viaggio tra le collezioni è quindi rappresentata dal Museum für Antike Skiffahrt di Mainz (Magonza)(2).

I romani arrivarono sul Reno con la conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare e il castrum militare di Mogontiacum, fondato nel 13 a.C., divenne poi la capitale della Germania Superior e quindi la sede della flotta che controllava la parte di limes costituita dal Reno. Anche se dalle fonti storiche si conosceva l’esistenza di una classis germanica, nulla si sapeva della tipologia delle imbarcazioni utilizzate sul fiume.

Nel 1981, però, durante i lavori di costruzione dell’hotel Hilton di Mainz, vennero alla luce i resti di cinque imbarcazioni romane che l’analisi dendrologica datò al IV secolo d.C.. Il museo fu poi inaugurato nel 1994 nei locali di un vecchio mercato, non lontano dalle rive del Reno.

Museo di Mainz, una delle ricostruzioni moderne.

Affiancate da due ricostruzioni moderne, vi sono esposte quattro imbarcazioni, la maggiore delle quali misura 21 metri di lunghezza. La tipologia di nave destinata al pattugliamento del limes era la navis lusoria, mossa da una trentina di rematori, che si presume fosse attrezzata con una vela quadra e che fosse armata con una ballista, una potente macchina da assedio che poteva lanciare grandi dardi o pietre sferiche.

Si ipotizza che lo scafo della navis lusoria, realizzato in quercia e piuttosto leggero, potesse raggiungere i 10 nodi, mentre la protezione dell’equipaggio era assicurata dagli scudi disposti a murata. L’attività di pattugliamento fluviale delle naves lusoriae basate a Mogontiacum, che secondo le fonti del IV secolo si aggiravano intorno alla quarantina di unità, poteva poi contare sull’appoggio di una serie di fortificazioni erette a distanze regolari lungo le sponde. Un tale sistema di pattugliamento e di controllo risultava quindi efficace e poco oneroso.

La spettacolare chiatta fluviale del Museo di Arles.

Lasciato il Reno e disceso il corso del Rodano si può sostare ad Arles, la città che ai tempi di Roma controllava il traffico che risaliva la corrente del fiume fino al centro della Gallia, mentre era un importante scalo delle navi che solcavano il Mediterraneo. Qui il Musée de l’Arles Antique espone una quantità notevole di reperti che ci ricordano quanto fosse prospera la città durante la dominazione romana, una realtà che è confermata da splendidi monumenti, quali l’Anfiteatro e il Teatro Romano.

Museo di Arles, bassorilievo dell’alaggio controcorrente.

Qualche anno fa l’erosione operata dalla forza della corrente sulle rive del Rodano ha poi portato alla luce un eccezionale esemplare di imbarcazione fluviale che era rimasto sepolto per secoli sotto la sabbia: si tratta di uno scafo costruito appositamente per trasportare merci lungo il fiume.

Questa chiatta, ritrovata in ottime condizioni di conservazione insieme al suo carico di pietrame, è lunga più di 30 metri, per una larghezza di 3,50. Lo scafo, che è stato datato al tempo di Nerone e che presenta una tecnica costruttiva piuttosto rozza, può dirsi pressoché completo: si sono conservati l’imponente timone, l’albero che reggeva i cavi di alaggio, alcune pulegge con i loro cordami e persino la cucina dell’equipaggio con gli utensili, un forno con la sua riserva di combustibile.

Per la conservazione delle essenze lignee dello scafo è stata utilizzata una nuova tecnica, che però ha costretto a sezionarlo in diverse parti che sono state poi ricomposte. Il museo espone inoltre diversi bassorilievi che ci fanno rivivere l’attività di trasporto fluviale: portuali che confezionano balle di mercanzia e chiatte cariche di botti che vengono alate controcorrente lungo l’alzaia.

La ricostruzione moderna dell’Alkedo nel Museo di Pisa.

Anche il Museo delle Navi Antiche di Pisa è nato da una scoperta del tutto accidentale che ha portato alla luce una specie di Pompei acquatica: era il 1998 quando i lavori di sterro accanto alla stazione ferroviaria di Pisa San Rossore (situata a diversi chilometri dal mare) rivelarono una notevole quantità di resti di scafi antichi. Nel corso dei secoli, questa zona, che allora si trovava alla confluenza tra i fiumi Serchio e Arno, fu ripetutamente colpita da alluvioni disastrose che provocarono il naufragio di una trentina di scafi. La violenza delle acque è testimoniata dal fatto che diversi di questi sono colati a picco uno sopra l’altro.

Si è poi creata una stratificazione di migliaia di oggetti: da parti di carico a strumenti da lavoro, da oggetti personali a tessere di mosaico. Senza dimenticare i drammi umani, testimoniati dal rinvenimento dello scheletro di un marinaio, annegato insieme con il suo cane. La mancanza di ossigeno e la presenza di fonti sotterranee hanno permesso una conservazione straordinaria dei materiali deperibili, come cordami, tessuti, panieri, oggetti da pesca, con una stratificazione archeologica che si estende dal II secolo a.C. all’VII secolo d.C.. Un arco di tempo che ha offerto interessanti spunti di studio sull’evoluzione del commercio marittimo mediterraneo.

Banco di rematori dell’Alkedo, con inciso il nome della nave.

Se sul sito sono stati ritrovati reperti appartenenti a numerose imbarcazioni, sono quattro quelle in esposizione: un grande traghetto, un altro con il ponte e l’albero ancora ben visibili, un battellino da trasporto e l’attrazione principale del museo, costituita dall’Alkedo. Si tratta di un battello da diporto dell’epoca di Augusto, mosso da 12 rematori. Le sue forme, che ricalcano quelle di una nave da guerra in miniatura, sono conservate in condizioni sorprendenti: si possono osservare i dettagli più minuti dell’attrezzatura e persino alcuni banchi dei rematori. Su uno di questi si può ancora leggere l’iscrizione in latino, ma in lettere greche, di Alkedo, ovvero gabbiano.

Non c’è bisogno di aggiungere che il ritrovamento di una simile testimonianza su un’imbarcazione di età classica sia del tutto eccezionale. Una ricostruzione moderna affianca lo scafo antico, a testimonianza di quale doveva esserne l’aspetto al tempo in cui solcava le acque di Pisa.

L’ngresso del Museo delle Navi a Fiumicino.

La storia del ritrovamento delle imbarcazioni del Museo delle Navi di Fiumicino risale agli scavi avvenuti dal 1958 al 1961, in occasione dei lavori per la realizzazione dell’Aeroporto Leonardo Da Vinci. Il museo, inaugurato nel 1979 fu poi chiuso nel 2002 per problemi strutturali e riaperto solo nell’autunno del 2021. Nonostante sia collocato a poche centinaia di metri in linea d’aria dall’aeroporto, per raggiungerlo a piedi dai terminal occorre passare per trafficate rotatorie senza marciapiedi e, addirittura, scavalcare un paio di guard-rail. Per i viaggiatori in transito conviene quindi prendere un taxi.

Oggi la sua struttura offre ai visitatori uno spaccato efficace e ben documentato della navigazione romana. La visita inizia con l’illustrazione dell’evoluzione del porto di Ostia, da quello di Claudio a quello di Traiano. La complessità e l’estensione delle sue strutture era dovuta al fatto che si trattava di uno scalo che serviva una megalopoli di un milione di abitanti e che doveva svolgere, in contemporanea, funzioni diverse: scalo per lo sbarco di merci e passeggeri ma anche deposito e magazzino di beni e derrate alimentari. Senza dimenticare l’essenziale servizio di trasbordo delle merci scaricate dalle navi in arrivo: merci che, per raggiungere l’Urbe, dovevano esser stivate sulle naves caudicariae, ovvero le chiatte da alare controcorrente lungo le alzaie del Tevere.

Fiumicino. Il ritorno in porto e l’osteria

Sotto l’ampia volta del museo il visitatore può osservare i resti di cinque scafi: si tratta di tre naves caudicariae, o chiatte fluviali, che avevano rispettivamente una portata di 70, 50 e 30 tonnellate. L’esame delle loro strutture ha permesso di appurare che queste venivano costruite con un approccio “di serie” e cioè che tra la prua e la poppa (di forme standard) veniva inserito un corpo centrale che poteva avere diverse dimensioni. Sono poi esposte una nave da trasporto e la cosiddetta “barca del pescatore”, così identificata per la presenza di una vasca centrale che aveva la funzione di mantenere vivo il pesce.

Bisogna sottolineare che negli anni ’60 del Novecento le complesse tecniche di conservazione di reperti lignei così antichi muovevano appena i primi passi, motivo per il quale le imbarcazioni, messe a contatto con l’atmosfera, subirono alcuni danni.

Tuttavia, gli sforzi e gli accorgimenti empirei allora utilizzati ci consentono oggi di osservare molti particolari di questi scafi, come il fasciame che mostra ancora le fessure longitudinali tipiche della tecnica costruttiva allora impiegata. Si tratta di una giunzione a incastro composta da un elemento maschio, detto “tenone”, e dell’alloggio femmina corrispondente, detto “mortasa”. In carpenteria navale, tali giunzioni, realizzate di taglio su ogni tavola di fasciame, richiedono maestri d’ascia particolarmente abili e precisi, garantendo poi un guscio di particolare robustezza.

Tra gli oggetti in esposizione spiccano alcuni bassorilievi marmorei. Quello più affascinante ci fa rivivere due momenti distinti dell’ingresso di una nave nel porto di Ostia. Nel primo, la nave si avvicina al porto, simboleggiato da un faro sormontato da un fuoco, mentre la barca del pilota si affianca sotto bordo; nel secondo, ci troviamo all’interno di una taverna, rappresentata da un focolare e da contenitori di cibarie, dove una fanciulla è immortalata nel gesto di porgere al marinaio seduto in attesa una coppa colma di una bevanda.

Oggi il Museo delle Navi Romane rappresenta un importante complemento e un‘introduzione al vicino Parco Archeologico di Ostia Antica, che colpisce i visitatori per la sua estensione e per le dimensioni di teatri, moli e magazzini, ma anche per il suo Piazzale delle Corporazioni. Nell’antichità, questo si presentava come un vasto portico aperto su tre lati, lungo il quale si aprivano, una dopo l’altra, le varie statio delle corporazioni dei trasporti marittimi provenienti da tutto l’Impero.

Qui si stipulavano i contratti di trasporto di merci e di viaggiatori che convergevano su Roma. Oggi le loro sedi si possono individuare facilmente perché sono tutte marcate da un mosaico che funge da insegna della provenienza geografica di ogni statio: possiamo così individuare i nomi dei porti di Karalis (Cagliari), Turris Labisonis (Porto Torres), Narbona, Tarraco (Tarragona), Gades (Cadice), Carthago, Sabratha (Libia). I mosaici illustrano poi vari tipi di navi, a volte rese più realistiche dalla presenza di un saccarius, (portuale) al lavoro.