In un mare chiuso come il Mediterraneo, la navigazione divenne presto il miglior mezzo di comunicazione per Egizi, Fenici, Greci, Romani e persino per gli Etruschi, dei quali tuttavia tratteremo specificamente in altra occasione.
Ma dalle piroghe alle triremi la strada non è stata facile.

antiche piroghe
Al di là della poesia e della leggenda, l’Odissea resta un credibile documento che illustra rotte e caratteristiche dell’antica navigazione. Sopra, nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara si possono ammirare i resti di due antiche piroghe monossili risalenti al III sec. a.C.

È poco più di una pozzanghera in confronto all’immensità degli oceani, ma è anche il mare che ha ospitato le radici della nostra civiltà, una civiltà che per diventare tale, una volta usciti dalle caverne, ci ha visto affrontare proprio quella pozza d’acqua che oggi chiamiamo Mediterraneo. Se pianure e montagne sono state necessariamente la prima via di comunicazione, da quando l’uomo ha cominciato a navigare il mare è stato il principale protagonista di incontri e scontri, ovvero di commerci e guerre che secolo dopo secolo hanno visto l’uomo passare dalla clava alle piramidi, per poi porre le radici del mondo in cui viviamo.

Il Mediterraneo quindi come culla di civiltà, soprattutto come culla di navigazione, avendo visto i primi vagiti della cantieristica navale e tenuto a battesimo l’uomo-marinaio con tutta la sua inesperienza piena di paure, ma anche di fame e sete: quella fame di guadagno che ha dato vita alle più ardite rotte commerciali, e quella sete d’avventura che ha portato le antiche navi a mettere la prua fin oltre le Colonne d’Ercole.

Certo qualche millennio fa non è che ci fossero GPS e cartografie elettroniche a guidare i comandanti di navi, peraltro spesso improbabili data la primitività della cantieristica, e navigare un mare piccolo ma comunque capriccioso come il Mediterraneo era sempre un’incognita.

Navigazione sul Nilo
Il Nilo, oggi solcato da pittoresche feluche, è stato per gli Egizi la prima palestra di navigazione, sebbene il passaggio alle meno placide acque del Mediterraneo non sia stato facile.

Le navi si muovevano sia a forza di remi nelle navigazioni sottocosta, quindi con un’autonomia necessariamente limitata ai muscoli dell’equipaggio, sia sfruttando il vento per i lunghi viaggi, per quanto concesso dalle attrezzature dell’epoca e dalla conoscenza di Eolo, divinità dal carattere notoriamente volubile, allora come oggi. Tempi duri quindi per i marinai, ma è anche grazie a quelle prime avventure se oggi siamo arrivati sulla Luna. Diventa allora interessante dare un’occhiata a quelle prime navigazioni e a quelle rotte che, favorite da venti e correnti, hanno creato la rete di commerci e conoscenze che a poco a poco hanno popolato le coste del Mare Nostrum.

bassorilievo
Un antico bassorilievo ricorda il trasporto di tronchi di cedri e abeti dalla Fenicia all’Egitto.

Un altro parametro da tenere in considerazione è la stagionalità che governava le antiche rotte, considerando la variabilità dei venti che condizionava le navigazioni a vela, ma anche quelle a remi perché andare controvento per quanto muscolosi fossero quegli antichi rematori non consentiva grandi autonomie. Senza poi dimenticare la forza delle correnti, che potevano essere locali e costiere ma erano presenti anche in alto mare.

In altre parole una situazione che rendeva sempre imprevedibile la durata del viaggio e, spesso, la sua riuscita. Le considerazioni di cui sopra, del resto, potrebbero contenere un’altra incognita, perché variazioni climatiche a parte nessuno ci assicura che nell’antichità venti e correnti avessero la stessa forza e direzionalità di quelle odierne, e lo stesso livello del mare vede oggi sommerse terre un tempo ricoperte dal mare. In mancanza di altri dati, quindi, per quanto riguarda i venti se non altro possiamo prendere per buona la nomenclatura già presente in tempi antichi e istituzionalizzata poi in quella Rosa dei Venti che però vide la luce solo nel 1375 d.C.

Gli antichi Greci avevano infatti già posto come riferimento dei voleri di Eolo (che però aveva messo su casa alle Eolie) l’isola di Creta, dando già allora nomi ben precisi ai vari venti a seconda della loro provenienza, nomi che di base sono gli stessi otto che utilizziamo ancor oggi e che erano ben incisi in quella Torre dei Venti a pianta ottagonale che sorge ancor oggi nell’agorà di Atene, e che potrebbe essere considerata una sorta di prima antica stazione meteorologica. A supporto dell’antica fantasia ellenica vale la pena ricordare che gli otto venti erano rappresentati da altrettanti fregi marmorei incisi sulla sommità della torre, che ne evidenziavano con eteree figure antropizzate il carattere.

Fenici
Le navi fenicie

Dagli Egizi ai Fenici

Di quale fu la gradualità del passaggio dalle prime canoe scavate nei tronchi d’albero alle prime imbarcazioni capaci di avventurarsi lontano da terra, e soprattutto capaci di trasportare un carico importante, sappiamo poco. Non sappiamo quindi come prima dell’Età del Bronzo si svilupparono antichi commerci come quello dell’ossidiana, un materiale vetroso di origine vulcanica da cui ottenere utensili e armi, di cui sono stati ritrovati numerosi reperti anche sulle nostre isole, come Lipari e Pantelleria, ma risalenti a un tempo che, dal punto di vista della navigazione, è avvolto nelle nebbie.

È lecito quindi pensare che prima di affrontare il mare quei primi marinai si siano fatti le ossa lungo fiumi e laghi, e in quest’ottica è altrettanto lecito pensare che data la loro storia siano stati gli Egizi ad avviare quel processo evolutivo che dalle prime canoe di papiro ha portato a imbarcazioni in legno capaci, dopo i primi problemi di costruzione, di spingersi ben oltre le foci del Nilo. Cosa che per altro fu possibile solo dopo che, rivelatesi inutili le pagaie, qualcuno inventò il remo. D’altro canto, per procurarsi il legno migliore per la loro cantieristica, in particolare cedri e abeti apprezzatissimi per le costruzioni nautiche, gli Egizi dovevano arrivare fin sulle coste fenicie e quindi affrontare il mare aperto con tutte le sue insidie, non ultima quella dell’orientamento. E se il movimento delle stelle era ben conosciuto, non c’era nessuna carta nautica a dirti quale rotta scegliere e su quale punto della costa approdare.

Fenici
La Torre dei Venti, nell’agorà di Atene, il cui disegno ottagonale riporta sulla sommità le raffigurazioni degli otto venti principali.

È quindi presumibile che quei primi navigatori Egizi abbiano scelto di navigare sottocosta, con la possibilità di ridossarsi in caso di necessità che, data la mancanza di bollettini meteo, potevano essere tanto impreviste quanto imprevedibili. Solo che di ridossi, in mancanza di isole e con una costa molto piatta, non dovevano essercene molti. In ogni caso precise testimonianze archeologiche ci ricordano quanto importante fosse la rotta che legava l’Egitto e la Fenicia, ovvero l’odierno Libano, e aprono un piccolo problema cronologico. Se da un lato l’abilità dei Fenici come navigatori e costruttori di navi è sempre stata esaltata e posta a modello dell’antichità, ponendone il massimo sviluppo intorno alla fine del secondo millennio a.C., è anche vero che da questo punto di vista ci sono buone ragioni per credere che gli Egizi fossero più avanti.

Non ci sono solo fonti epigrafiche risalenti al 2650 a.C. che testimoniano una spedizione di 40 navi egizie che raggiunsero la Fenicia (Libano) per approvvigionarsi di legno di cedro, ma c’è soprattutto quella nave di Cheope ritrovata nel 1952 sepolta ai piedi della piramide dell’omonimo faraone (2551-2528 a.C): lunga 43,40 metri per 5,90 di baglio aveva un dislocamento stimato in circa 40 tonnellate e una tecnica di costruzione che fu poi ritrovata anche in molte navi fenicie. Era insomma una corazzata dell’epoca, ma non abbiamo certezza assoluta che abbia mai navigato.

Rotte fenicie
Le navi fenicie, di cui nella cartina sotto sono evidenziate le principali rotte, alimentarono i primi commerci marittimi internazionali.

Capitani coraggiosi

L’abilità dei Fenici, considerati i più grandi navigatori dell’antichità, fu un po’ forzata dalla situazione. Erano capaci agricoltori e avevano una terra fertile ma pochi sbocchi commerciali via terra avendo alle spalle alte catene montuose, ma soprattutto avevano grandi riserve di boschi da cui ricavare il legno necessario per costruire navi e imbarcazioni, legno – soprattutto cedri e abeti – che essendo merce rara e ricercata veniva anche esportato. Così fin dal XII sec. a.C. cominciarono a darsi da fare sviluppando un talento naturale per la cantieristica, e già nel IX secolo si erano affermati come una delle maggiori potenze commerciali del mondo antico.

Le Colonne d’Ercole rappresentarono a lungo un limite invalicabile per gli antichi navigatori: i Fenici furono probabilmente i primi a varcarne le soglie.

Non abbiamo libri di bordo del tempo per darci dati precisi sulle condizioni e sulle rotte di navigazione, ma è possibile immaginare che la situazione meteo ed in particolare i venti di levante, li abbia favoriti nel raggiungere dapprima le isole greche dell’Egeo, per poi spingersi a colonizzare con porti e basi commerciali gran parte del Mediterraneo occidentale. Sulla via del ritorno la navigazione era probabilmente meno favorevole, ma navigando sottocosta e sfruttando anche le correnti riuscivano a tornare alle loro basi senza particolari problemi.

In una foto d’epoca, il recupero dei resti di un’antica imbarcazione egizia risalente all’incirca al 1800 a.C..

Larghe di baglio e a vela singola, le navi fenicie si spinsero però fin oltre le Colonne d’Ercole, risalendo le coste atlantiche a Nord e quelle dell’Africa a Sud. A spingerli, però, non doveva essere solo una sete di guadagno ma anche un innato amore per l’avventura. Solo così, ad esempio, si può giustificare il viaggio di quel Pitea che, fra storia e leggenda, partì verso il 330 a.C. dalla colonia fenicia di Massalia, l’attuale Marsiglia, passò lo Stretto di Gibilterra e risalì le coste atlantiche dell’Europa fino a spingersi ai bordi dei grandi ghiacci nordici dove, come riportò nel suo resoconto, il sole non tramonta mai.

Di quell’isola, quell’Ultima Thule che fu l’estremo limite del suo viaggio (l’Islanda? Le Shetland? Le Fær Øer? Le coste della Norvegia?) si è molto fantasticato anche nell’antichità, ma Claudio Tolomeo ne fornì precise coordinate geografiche e successivamente, sulla base di attente ricerche, molti storici gli hanno dato credito. Certo è che quelle rotte furono nei secoli successivi molto battute per commerciare olio e suppellettili in cambio di stagno e argento di cui quelle terre erano particolarmente ricche.

Barca solare di Cheope
La nave di Cheope, ritrovata nel 1952, dopo oltre 4600 anni, ai piedi dell’omonima piramide: scomposta
in 1224 pezzi; per ricostruirla ci vollero 13 anni.

In Islanda, ad esempio, sono state ritrovate molte monete di epoca romana, e se in quelle isole non sono state rinvenute monete fenicie è solo perché, nel commercio multinazionale e multirazziale di quel tempo e in terre tanto lontane e isolate, il denaro come valuta di scambio non avrebbe avuto senso.

Diverso il discorso per i commerci mediterranei dove, oltre al vetro finemente lavorato, un’altra specialità dei Fenici era rappresentata dai prodotti tessili, e in particolare quei filati di porpora ottenuti dalla lavorazione dei murici (Murex brandaris), molluschi gasteropodi molto comuni in Mediterraneo, ricercatissimi in tutto il mondo antico. Che poi i Fenici, come tanti popoli dell’antichità, commerciassero anche in schiavi non deve destare meraviglia.

La moderna ricostruzione di una trireme greca, il cui debutto bellico avvenne nella battaglia di Salamina (480 a.C.).

Fra leggende e realtà

Se i Fenici dominarono le prime rotte commerciali dell’antichità, dovettero poi subire l’evoluzione di altre potenze marittime come quelle di Greci e Romani, solo che nel frattempo le rotte mediterranee non servivano più solo al commercio, ma erano divenute importanti anche in senso bellico. E questo, se vogliamo, ci riporta a quello che, in un certo senso, è uno dei primi documenti indicativi dell’antica navigazione, vale a dire l’Odissea. Ricordiamo, per chi avesse affogato nell’oblio i ricordi di scuola, che parliamo di un’epoca che si aggira intorno al 1200 a.C., e del ritorno di Ulisse dall’impresa di Troia dove i Greci avevano messo in campo ben 1178 navi.

Diciamo pure che chiamarle navi forse è un po’ eccessivo, dato che parliamo di scafi di poco superiori ai dieci metri, non pontati e armati di una sola vela peraltro poco affidabile. Comunque, per navigare navigavano, e con dodici di queste barche Ulisse lasciò Troia e tornò dopo qualche peripezia alla sua amata Itaca…dopo però aver perso per strada, anzi per mare, una dopo l’altra, tutte le sue navi.

Annone
La misteriosa Pedra di Paraiba, un mistero non ancora risolto.

Fu solo poesia o poetica trasfigurazione della realtà? Di certo una Troia che dalla collina di Hissarlik dominava lo Stretto dei Dardanelli, peraltro distrutta da un incendio, è realmente esistita e fu riportata alla luce da Heinrich Schliemann. Sulle peripezie di Ulisse, alias Odisseo, non possiamo invece garantire.

Volendogli però dare un po’ di fiducia, dobbiamo ammettere che il suo girovagare per il Mediterraneo con navi prive di deriva e quindi, vela a parte, incapaci o quasi di risalire il vento, dimostrerebbe un’ottima conoscenza dell’arte di navigare. Il quasi, per quanto concerne la possibilità di risalire il vento, riguarda pure le vele quadre tipiche di quelle antiche imbarcazioni, che potevano in qualche modo essere imbrigliate fino a modificarne la forma rendendole simili a una vela latina, e consentendo solo minime possibilità di risalire il vento.

Dai Dardanelli all’isola di Djerba, terra dei Lotofagi, pur avendo perso per strada come detto parte delle sue dodici navi, Ulisse sfruttò i prevalenti venti da N-NE, quelli che ben conoscono tutti gli appassionati velisti dell’Egeo con il nome di “meltemi”. Occorre però aggiungere che lungo le sue rotte Odisseo incontrò diverse burrasche, oltretutto imprevedibili anche se in linea con il carattere del Mediterraneo, e che le sue piccole e pericolanti navi abbiano potuto superarle indenni fa venire qualche dubbio su tutta la storia.

Libano
Le Rovine di Tiro, una delle più importanti città stato della Fenicia, situata nell’attuale sud del
Libano.

In ogni caso uno studio attento dell’Odissea ha rivelato come nelle sue descrizioni del viaggio di Ulisse Omero ci abbia fornito dati del tutto veritieri per quanto riguarda rotte e distanze, oltre che precise osservazioni astronomiche, forse in assoluto i primi e più antichi dati nautici.

A prescindere da Ulisse, è evidente che con centinaia di isole a disposizione anche i Greci – come i Fenici, e forse sfruttando le loro conoscenze – impararono presto a costruire navi e a navigare. Oltretutto, in gran parte del loro immenso arcipelago si poteva navigare a vista, quasi ignorando quelle stelle, Polare in primis (anticamente chiamata anche Stella Fenicia), che all’epoca costituivano l’unico modo per orientarsi in alto mare.

Lo sviluppo della cantieristica portò poi a un uso diverso delle navi, che affiancarono all’uso commerciale quello bellico, che modificò i modelli costruttivi passando da un profilo tondeggiante che favoriva il carico, a quello lungo e profilato che dava maggior potenza alla nave. Potenza che, essendo l’unica vela anche l’unica spinta propulsiva “naturale”, era affidata principalmente al numero e alla spinta dei rematori, il che rendeva le navi relativamente indipendenti dai capricci del vento facilitando la navigazione anche su rotte bellicamente importanti ma marittimamente difficili.

La “pentecontera”, la tipica nave da guerra inventata dai Fenici ma sviluppata poi dai Greci, portava venticinque rematori per lato (da cui il nome), e dominò i mari fino all’arrivo della trireme, che debuttò nel VII sec. a.C. nella battaglia di Salamina. La navigazione, come detto, si rivelò uno straordinario sistema bellico anche per i Romani, che potendo sviluppare un’importante cantieristica grazie alla grande abbondanza di legno fornita dalle loro provincie, la svilupparono fino ad avere la più potente flotta da guerra del mondo antico.

Leggere, veloci e maneggevoli, lunghe fino a 40 metri per 6 di baglio, le triremi romane potevano avere fino a 180 rematori, ed affrontavano il mare con buona sicurezza portando la forza dell’aquila romana ovunque richiesto.

correnti
Una schematica illustrazione del movimento delle correnti presenti in Mediterraneo, che a seconda delle situazioni furono di vantaggio o svantaggio per gli antichi navigatori.

Le rotte incredibili

L’abilità marinara, e forse l’audacia un po’ incosciente di alcuni antichi navigatori, ha tracciato rotte decisamente impensabili all’epoca. Basterebbe pensare che Annone, un esperto comandante fenicio o più precisamente cartaginese, nel V secolo a.C. superò le Colonne d’Ercole con ben 60 pentecontere e circa 30.000 coloni fra uomini e donne, spingendosi poi lungo le coste atlantiche fino al Golfo di Guinea e riportando un dettagliato resoconto del viaggio nel suo “Periplo”, scritto purtroppo andato perduto nel grande incendio che distrusse la biblioteca di Alessandria.

A testimonianza del credito di cui godevano i comandanti di Biblo e Sidone, già prima di Annone il faraone Necao II aveva loro commissionato una spedizione mirata a scoprire lungo le coste dell’Africa (al tempo chiamata genericamente Lybia) nuove terre e nuove ricchezze, spedizione di cui Erodoto ci fornisce ampi dettagli.

Rotta di Annone
L’impresa di Annone, il cui percorso è illustrato nella cartina, si interruppe nel Golfo di Guinea per mancanza di acqua e viveri.

Partendo dal Mar Rosso, le navi fenicie navigarono per tre anni, durante i quali per approvvigionarsi di alimenti – principalmente fichi secchi, uva passa, olive in salamoia e qualche pesce seccato o pescato – approdavano lungo costa, seminavano il grano e ripartivano solo dopo averlo raccolto.

Fu così che quando dopo oltre un anno di navigazione si ritrovarono il sorgere del sole sulla destra, e soprattutto dopo aver attraversato le ben note Colonne d’Ercole, capirono di aver navigato lungo una grande, immensa isola…oggi, perché prima dell’apertura del Canale di Suez (1869) l’Africa era collegata all’Asia da uno stretto lembo di terraferma.

Questa incredibile impresa non portò a grandi sbocchi commerciali date le problematiche marittime dell’epoca, e fu solo molto ma molto tempo dopo che i portoghesi Bartolomeo Diaz (1487) prima e Vasco de Gama poi (1497) doppiando il Capo di Buona Speranza aprirono una via commerciale verso l’India, che bypassando i paesi arabi e turchi rendeva preziosa quella via delle spezie, merce all’epoca preziosa e ricercatissima anche perché oltre all’uso alimentare se ne faceva un uso farmacologico.

Forse la più incredibile delle rotte dell’antichità, però, non fu in realtà una vera e propria rotta in quanto fu dovuta in realtà…alla perdita di una rotta, ovvero quella testimoniata dalla Pedra di Paraiba, in Brasile. Premettiamo che parliamo di un’ipotesi, cui se ne aggiungono altre che tirano in ballo Atlantide e gli extraterrestri, ma questa per quanto incredibile sembra fra le più attendibili essendo suffragata da precise testimonianze. “Siamo figli di Canaan, provenienti dalla città reale di Sidone.

Una tempesta ha gettato la nostra nave su questa costa lontana, una terra montuosa, e abbiamo sacrificato su una altura agli dèi e alle dee, nell’anno diciannovesimo di Hiram, il nostro re potente. Ci siamo imbarcati ad Ezion Geber nel Mar Rosso e siamo salpati con dieci navi. Fummo in mare insieme per due anni, aggirando l’Africa, ma una tempesta ci separò dai nostri compagni.

Così ci siamo accampati su questa costa montuosa, dodici uomini e tre donne, sani e salvi, ma dieci perirono”. Questa la traduzione più o meno letterale di un’iscrizione ritrovata in una piantagione brasiliana nel 1872, che sembrerebbe risalire al 531 a.C. e che anche se da alcuni ritenuta un falso potrebbe avere una sua logica perché in fondo, pur con tutte le perplessità di una tanto lunga sopravvivenza in pieno oceano presumibilmente senza acqua e senza cibo, la spinta degli Alisei e delle correnti potrebbero giustificare il percorso passivo della nave dalle coste africane fino a quelle brasiliane.

Una via senza ritorno, perché anche ammettendo che con la loro abilità e la grande disponibilità di legno avessero potuto costruire una nuova nave, non avrebbero mai potuto navigare contro gli Alisei.

Premesso che esistono altre evidenze documentali, archeologiche e linguistiche che testimonierebbero la presenza dei Fenici in Brasile, il tutto resta avvolto in quell’aura di mistero che rende affascinante ogni sguardo nel passato, ancor di più se c’è di mezzo il mare.