Una cosa si può affermare con assoluta certezza sulle condizioni di vita dei Vichinghi: non abitavano sicuramente in una terra molto ospitale. Non parliamo poi delle acque che bagnavano quelle coste: il mare del Nord incute ancora oggi rispetto e timore. Dopo una breve occhiata alla carta batimetrica della regione, la morfologia di questo bacino lascia facilmente presupporre l’inequivocabile impetuosità delle burrasche ed un forte idrodinamismo.Il mare del Nord è, infatti, caratterizzato da fondali relativamente bassi che, quasi senza digradare, si affacciano improvvisamente sulle forti batimetrie delle fosse dell’Oceano Atlantico. Ne consegue una diffusa predisposizione verso “..onde anche di quindici metri di altezza, sferzate dal vento fino a 240 km/h e con correnti di marea fino a 8 nodi.” Il bacino è, però, anche molto pescoso e forse fu per questo motivo che i primi vichinghi si avventurarono in mezzo ai suoi flutti.

Non tutti gli abitanti di quelle terre che costituiscono oggi la penisola dello Jutland e le propaggini più meridionali della Norvegia e della Svezia possono essere accomunati alle bande che scorazzavano lungo le coste dell’Europa settentrionale. La maggior parte di essi, infatti, coltivava la terra o intraprendeva proficui commerci, e solo un numero limitato, seppure il più conosciuto, andava a “i viking”. La parola deriva probabilmente dal termine scandinavo “vik”, che significa baia o cala e può essersi in origine riferita ai razziatori che stavano in agguato nelle insenature in attesa di attaccare.

I vichinghi non possono, pertanto, essere accomunati ad una stessa tribù o popolo. Furono le tribù nomadi di diversi popoli nordeuropei, tra i quali i Sassoni, gli Iuti e gli Angli, che diedero origine alle orde vichinghe che sconvolsero le terre europee e nordafricane dall’800 fino al 1050 circa. I motivi che spinsero questi uomini ad impostare la loro vita sul mare sono, a detta degli storici, principalmente due: da una parte l’impellente necessità di trovare alimenti e terre che potessero sostenere l’espandersi demografico delle tribù, dall’altra l’alta specializzazione tecnica acquisita nella costruzione navale.

Questi popoli, che d’ora in poi chiameremo Vichinghi, lasciandosi alle spalle le aree protette del mare del Nord, iniziarono verso l’800 d.C. a guardarsi un poco attorno. Questa curiosità li spinse inizialmente in Irlanda e poi in Inghilterra. Come seguendo uno schema prefissato, le loro devastanti scorribande li portarono in Francia, in Spagna e, superate le colonne d’Ercole nell’859, anche nel bacino Mediterraneo. Nell’860, secondo una cronaca dell’epoca, i Vichinghi si diressero verso l’Italia settentrionale per accingersi a compiere un ambizioso progetto: il sacco di Roma.

Ma quella volta non furono fortunati, o meglio non ben informati. Tant’è vero che, essendo risaliti troppo verso Nord, prima saccheggiarono Pisa e dopo, avendola scambiata per Roma, con uno stratagemma si impossessarono della città fortificata di Luni, vicino Sarzana. Per i primi tre quarti del IX secolo i Vichinghi riportarono invariabilmente delle vittorie, tranne che in Spagna, facilitati dal fatto che a quel tempo l’Europa non avesse un capo abbastanza forte che riunisse i re ed i signori delle varie regioni in un unico nucleo di resistenza contro le devastanti orde scandinave, forti a tal punto che, se si fossero dedicate alle conquiste piuttosto che ai saccheggi, avrebbero potuto facilmente diventare padrone della maggior parte dell’Europa occidentale.

Attraverso il Mar Baltico le navi vichinghe giunsero ad addentrarsi anche nelle terre della Russia europea e discendendo il fiume Dnepr, seminarono il terrore lungo le sponde del Mar Nero. I razziatori vichinghi erano dappertutto: li contraddistinguevano una organizzazione militare eccellente ed una strategia degna dei migliori condottieri. Nessun reame a quel tempo poteva vantare un esercito egualmente bene addestrato e così essi risultavano vittoriosi.

Per meglio poter comprendere le formidabili imprese di questi uomini, soffermiamoci ora sui loro mezzi di spostamento. Se fino a qualche secolo prima il cavallo era stato il denominatore comune dei barbari delle steppe dell’Europa orientale e centrale, la nave si era ora sostituita ad esso quale mezzo di trasporto per eccellenza. I Vichinghi, infatti, mal si adattavano all’uso del cavallo, utilizzandolo solo per perlustrare preventivamente il campo di battaglia.

Le uniche notizie relative all’arte della costruzione navale vichinga ci sono state tramandate non da trattati di tecnica costruttiva, bensì attraverso i ritrovamenti di imbarcazioni, commerciali e da guerra, che venivano spesso tumulate assieme a personalità militari e politiche, così come usavano fare gli antichi egiziani qualche millennio prima. Due di queste camere funebri, due grandi navi, sono state trovate pressoché intatte, dal momento che erano state sepolte nel gesso, coperte con pece e ricoperte infine con dei detriti. La nave di Gokstad trovata nel 1880, e la nave di Oseberg rinvenuta nel 1904, costituiscono così le due fonti principali dalle quali si è attinto per comprendere la tecnica costruttiva di questi “dragoni del mare”.

Ma partiamo dall’inizio della storia della navigazione di questi popoli del Nord. Inizialmente le loro navi non erano provviste di vele. Le prime imbarcazioni che solcarono le fredde acque del mare del Nord erano mosse unicamente dall’azione di forti rematori. In quel periodo, precedente al IV secolo, la nave costituiva il più sicuro e veloce mezzo per il trasporto sia di merci che di uomini.

Il più importante reperto di questa fase della storia della navigazione dei popoli del Nord è oggi ospitato nel museo di Shleswing in Danimarca, e rappresenta il più vecchio esempio di nave pre-vichinga che si conosca. Si tratta del relitto di Nydam, che deve il suo nome alla località nel fiordo danese di Flensburg dove venne rinvenuto nel 1864 assieme ad altre due imbarcazioni, oggi purtroppo non più conservate. Intenzionalmente affondata in una palude, probabilmente per un’offerta votiva, questa nave risultò pressoché intatta al momento del rinvenimento.

Si tratta di un’imbarcazione a remi, quindi ancora sprovvista di alberto e vela, lunga ben 23,5 metri e larga circa 3,5, con il fasciame sovrapposto formato da tavole ricavate da pezzi unici lunghi come la barca. Non ha chiglia, nel moderno significato del termine, visto che essa si presenta come una semplice asse di fondo, alquanto più larga e spessa delle altre tavole che la affiancano, cinque per bordo, e che risalendo a formare i fianchi dello scafo danno all’imbarcazione una caratteristica forma di V acuta. Sia questo tipo di chiglia piatta che il fatto di aver rinvenuto a bordo quasi una tonnellata di pietre di zavorra, sono indice della scarsa stabilità dell’imbarcazione. Mentre le assi del fasciame si presentano inchiodate l’una all’altra, le ordinate sono invece fissate con legamenti di tiglio alle castagnole del fasciame.

Con l’adozione della vela, avvenuta presumibilmente verso il VII-VIII secolo d.C., nacque la nave mercantile vera e propria che permise ai Vichinghi un’economia commerciale in seguito rivelatasi ancor più proficua delle incursioni piratesche sino ad allora praticate. Pochi uomini potevano ora manovrare la barca e una maggiore quantità di merci (soprattutto steatite per la fabbricazione di stoviglie, frumento, pelli e pesce secco) poteva così venire trasportata.

Le dimensioni delle navi presto si uniformarono e dal VI secolo in poi la maggioranza di esse misurava dai sedici ai venticinque metri di lunghezza. Gli scafi, essendo costruiti con assi legate tra loro con fibre naturali, possedevano incredibili doti di elasticità nelle tempeste. Le assi, infatti, si potevano muovere le une sulle altre assorbendo tutti gli sforzi e ripartendoli sulla intera struttura.

Concreto esempio di questo nuovo tipo di imbarcazione è rappresentato dalla nave di Oseberg che, risalendo al IX secolo d.C., rappresenta la nave del periodo vichingo vero e proprio, o meglio dell’inizio di esso. Rinvenuta nel 1904 nella fattoria di Oseberg dalla quale prende il nome, questa nave serbava un documento storico importantissimo ed inusuale: infatti, era stata usata come monumento funerario non per dei guerrieri ma per due donne, la regina Asa di Norvegia e una sua dama di compagnia.

Perfettamente conservata, si presentava ricca di incisioni eseguite sull’opera viva, oltre che sul carro ed il letto funerario che erano stati seppelliti con le donne. Il tutto denotava un avanzato grado di abilità nell’incisione decorativa ed alcuni di questi ornamenti rivelarono nuovi dati in merito alle credenze dei primi scandinavi. Al vertice di alcuni pali erano, ad esempio, scolpite teste di animali feroci e ringhianti che, a quel tempo, si pensava servissero a tenere lontano gli spiriti maligni; queste, secondo una credenza pagana, dovevano venire rimosse prima dell’approdo per non far spaventare gli spiriti benigni di terra. Anche la poppa e la prua della nave terminavano con ampie volute riccamente scolpite che si concludevano entrambe con una testa di dragone o di serpente.

Con un lungo e filante scafo non pontato di ben 22 metri e largo quasi 5,20, la nave di Oseberg si presenta interamente costruita in legno di quercia, con una robusta chiglia e 12 corsi di fasciame per bordo. Sia le ordinate che le assi del fasciame sono ancora pressoché fissate come nel periodo precedente, e cioè legate alle castagnole le prime, sovrapposte ed inchiodate tra loro le seconde. Il timone è formato da una grossa pala di remo fissata con cinghiaggi di cuoio a dritta dello scafo, in prossimità della poppa. Come rivelano i fori praticati lungo l’ultima tavola del fasciame, la nave veniva propulsa da 15 paia di remi ma poteva anche procedere a vela.

All’incirca a metà nave era collocata una robusta scassa che poggiava direttamente sulla chiglia. Dalle numerose pietre incise del periodo vichingo che raffigurano i diversi tipi di imbarcazione del tempo, possiamo farci un’idea piuttosto chiara del tipo di alberatura e di vela impiegate. Le incisioni mostrano, infatti, delle vele quadrate a scacchi, di solito in diagonale. Questa geometria interna era quasi certamente creata da rinforzi di tela o di pelle, che servivano ad irrobustire la vela in grossa tela tessuta in quanto, se bagnata, essa poteva facilmente deformarsi e quindi indebolirsi. Le raffigurazioni più antiche mostrano, inoltre, chiaramente l’impiego di un boma alla base della vela, cui venivano collegate le scotte.

Confrontando questa nave con quella di Nydam, precedente di quasi 500 anni, il particolare che più di ogni altro balza agli occhi sta nella chiglia, ovvero, nell’angolo di attacco tra la chiglia e il fasciame. Mentre nella Barca di Nydam la chiglia era piatta e si restringeva verso le estremità, con un angolo nella porzione centrale dello scafo molto ampio che si avvicinava ai centottanta gradi, ora essa si presenta molto più profonda, per assolvere tre precisi compiti: permettere allo scafo di sopportare il sovraccarico dell’albero e della vela; garantire stabilità in corsa (adeguata alla velocità impressa al mezzo ad opera della vela); evitare o ridurre al minimo il fenomeno dello scarroccio in presenza di venti laterali.

Questa nave era del tipo oggi noto come “nave lunga”, la nave vichinga vera e propria, destinata soprattutto al trasporto di persone, sia per scopi pacifici che militari e pirateschi. Le “navi lunghe” potevano essere di vario tipo e dimensioni (le più grandi erano dette “a drago”), ed ospitare dalle 6 alle 32 paia di remi, ma erano tutte egualmente contraddistinte da uno scafo estremamente allungato e filante; esse, inoltre, erano imbarcazioni piuttosto leggere, tanto da rendere necessari sia una maggiore quantità di zavorra che un grosso equipaggio per poter controbilanciare il peso impresso dalla forza del vento sulla vela ed impedire quindi alla nave di capovolgersi.

Per un uso prettamente mercantile era stata invece costruita la nave lunga di Klastad, anch’essa risalente al IX secolo, scoperta nel 1970 nella Norvegia meridionale. Importanti, rispetto alla nave di Oseberg, apparvero subito le differenze: lo scafo, meno lungo ma più ampio, era più stabile e, necessitando di un minore equipaggio (non più di 8-10 persone), permetteva una maggiore capacità di carico.

Un altro splendido esempio dell’arte di costruzione navale dell’epoca vichinga è rappresentato dalla nave di Gokstad, un’imbarcazione che doveva essere già vecchia al momento in cui venne tumulata con un corpo di guerriero, ma perfettamente conservata grazie alle imponenti masse d’argilla sotto cui venne sepolta: queste avevano funzionato da elemento sigillante preservandola intatta fino al momento dello scavo. Ad un attento esame essa rivelò subito una tecnica di costruzione e una architettura navale assai avanzate, di vari secoli avanti rispetto alle navi coeve degli altri paesi, in grado di percorrere e dominare per secoli i mari di tutta l’Europa settentrionale.

Sia la chiglia che lo scafo e il sistema d’attacco della velatura, sono tipici di una nave a vela tecnicamente avanzata, studiata apposta per le particolari condizioni geografiche locali e per affrontare positivamente qualsiasi stato del mare, risultato dell’esperienza di molte generazioni di esperti marinai e costruttori navali.

Si tratta di un’imbarcazione aperta, costruita in legno di quercia, assai più grande e robusta rispetto alle navi viste in precedenza, adatta non solo alla navigazione costiera ma anche a quella in mare aperto. Lunga circa 26 metri per quasi 6 di larghezza, ne misurava 2 dalla chiglia al parapetto. L’albero doveva misurare in origine dai 12 ai 14 metri. I suoi fianchi avevano fori per sedici paia di remi ed il fatto che né su questa nave né su quelle precedenti compaiano tracce di banchi per i vogatori, lascia supporre che questi si servissero di panche mobili o fissate in modo che potessero venire facilmente rimosse all’occorrenza. Quando la nave sbandando sotto la forza del vento rischiava di imbarcare acqua dai fori per i remi, dei piccoli dischi di legno incernierati a fianco di essi servivano per chiuderli.

Lungo le murate, al di sotto del parapetto, una rastrelliera conteneva ancora 64 scudi appesi, 32 per bordo, che da poppa a prua si alternavano cromaticamente in giallo e nero. Si ritiene che questi scudi, che spesso compaiono sulle rappresentazioni di navi vichinghe, non facessero parte dell’equipaggiamento personale dei guerrieri, ma avessero semplicemente uno scopo decorativo o servissero per distinguere ed identificare la provenienza o il proprietario della nave. Essi, comunque, venivano certamente rimossi durante la navigazione per evitare che venissero strappati dalle onde. La chiglia era stata ricavata da un solo tronco, mentre la nave era costruita a fasciame cucito in modo tale che, come già abbiamo visto per le imbarcazioni precedenti, le assi dello scafo si sovrapponessero una all’altra, con connessioni calafatate con pelo di animale intriso di pece.

Una caratteristica non comune di costruzione è costituita dal fatto che solo il fasciame al di sotto della linea di galleggiamento era legato alle nervature con radici di abete rosso, mentre il resto della nave era tenuto insieme con chiodi di legno. La ragione di questo tipo di legatura del fasciame alle nervature fu scoperta quando nel 1893 una copia esatta della nave di Gokstad venne fatta navigare riuscendo ad attraversare l’Oceano Atlantico in soli 28 giorni e dimostrando, tra tutte le altre cose, che il fasciame legato in tal modo assicurava elasticità alla nave permettendole di assecondare facilmente i movimenti delle onde.

Anche in questo caso il timone era costituito da un unico tronco di quercia assicurato al fianco destro della nave in prossimità della poppa, con una sbarra fissata alla sua sommità che serviva per governarlo. Questo tipo di timone presentava molti vantaggi rispetto ai più comuni timoni di poppa: poteva essere manovrato da un uomo con poco sforzo anche con mare in tempesta, e la sua posizione era di aiuto nell’evitare la deriva sottovento, quando la nave navigava con il vento di traverso. Esso, inoltre, creava poco ingombro rispetto al timone di poppa e la sua ubicazione rendeva possibile la tipica sagomatura della poppa, alta e ripida, che impediva alla nave di imbarcare acqua col mare grosso.

Anche in questa nave, come già in quella di Osemberg, la poppa e la prua terminavano con ampie ed ardite volute, riccamente scolpite, che si concludevano con una testa di serpente dai grandi e penetranti occhi: rappresentazioni paurose e fantastiche che dovevano sicuramente destare una grande impressione, al punto che le navi vichinghe venivano comunemente chiamate “dragoni” dagli altri popoli.

Le saghe, gli unici strumenti che hanno permesso di tramandare una certa quantità di eventi storici e di abitudini di questo popolo, ci descrivono anche navi molto più grandi di quella di Gokstad, seppure esse, probabilmente, non potessero contenere più di quaranta uomini. Secondo la tradizione, la più celebre di tutte le navi vichinghe del tempo fu quella del re Olaf Tryggvesson, chiamata “serpente lungo” e dotata di ben 68 remi. In genere le navi corsare erano di minori dimensioni e non avevano più di 32 remi. Erano comunque le imbarcazioni più veloci e robuste del tempo, le uniche che potessero affrontare con sicurezza il mare aperto. Inoltre, piatte e leggere com’erano, potevano navigare i fiumi ed essere facilmente alate e quindi trasportate via terra, così come facevano con le canoe gli indiani d’America.

Le maggiori incursioni nell’entroterra, dopo aver risalito i fiumi, vennero effettuate dai Vichinghi che abitavano le coste baltiche delle terre russe. Le loro incursioni li portarono, risalendo il fiume Lovat, all’importante centro commerciale di Novgorod e, dopo avventurosi trasferimenti via terra, presso le sponde del fiume Dnepr. Da qui, dopo aver ridisceso questo grande fiume, giunsero a Kiev ed infine sulle acque del Mar Nero, dove vennero a contatto con la ricca realtà di Costantinopoli, città che, dopo molti anni di preparazione militare, ebbero addirittura il coraggio di attaccare.

Accenniamo, infine, brevemente ad altre tre imbarcazioni della fine dell’era vichinga, rinvenute negli scavi di Skuldelev in Danimarca, soprattutto per il fatto che di due di esse, note con il nome di Skuldelev 1 e Skuldelev 3, negli ultimi anni sono state effettuate delle ricostruzioni in scala reale, che ci hanno permesso di acquisire nuovi ed importantissimi dati sulle navi vichinghe. Le prove effettuate in Oceano Atlantico con queste due copie, ribattezzate rispettivamente “Roar Ege” e “Saga Siglar”, hanno dimostrato l’estrema manovrabilità di queste imbarcazioni, lunghe in media 15 metri, che potevano venire condotte da soli 5 o 6 membri di equipaggio e addirittura viaggiare anche contro vento.

Ma oltre alla innegabile supremazia tecnica, quali altri elementi permisero a questo popolo di navigatori di compiere imprese di tal genere, consentendo loro di solcare il gelido Mar Bianco, i grandi fiumi navigabili russi e addirittura sbarcare lungo le coste del Canada quasi 500 anni prima della data ufficiale di scoperta del continente americano ad opera di Colombo? Non si conosce con esattezza il modo in cui i Vichinghi riuscissero a navigare in mare aperto, per centinaia e centinaia di miglia, senza sbagliare di molto la rotta.

Le più attendibili testimonianze circa la loro tecnica di navigazione ci sono state tramandate dalla puntigliosa relazione che un commerciante vichingo di pelli di animali e ossa di balena redasse nell’890 presso la corte del re inglese Alfredo il Grande. Ottar – così si chiamava il mercante – narrando del suo peregrinare sul Mar Baltico a caccia di denti di tricheco, riporta le distanze tra una località e l’altra espresse in giorni di viaggio, con vento favorevole e senza la navigazione notturna.

L’attracco durante la notte era una norma di sicurezza generalmente diffusa e solitamente si attendeva il sopraggiungere di un favorevole vento di poppa per intraprendere ogni viaggio per mare. La navigazione, lungo le rotte conosciute, era prevalentemente di cabotaggio e si basava su riferimenti costieri. Per le lunghe traversate, che naturalmente includevano navigazioni notturne, pare che essi si servissero molto bene di alcune nozioni di meteorologia (la formazione di nubi, ad esempio), di idrodinamica e propagazione delle onde, e che addirittura sapessero calcolare l’altezza all’orizzonte del sole e di alcune stelle per mezzo di un precursore del nostro sestante.

A tutto ciò si aggiungeva una gran dose di buon senso e, come in tutte le imprese che conservano una parte incognita, una piccola dose di fortuna. Tranne che per alcuni lunghi tratti di mare aperto, la navigazione era comunque pressoché costiera e sempre interrotta col sopraggiungere della sera. Le foci dei fiumi, così come lo erano state per i Greci, e le isole prospicienti la costa, così care ai Fenici, erano punti favorevoli anche per i Vichinghi per qualsiasi operazione di sbarco o di commercio con i locali. La merce di scambio preferita dai Vichinghi in cambio dei loro prodotti era l’argento, al punto che ancor oggi se ne trovano notevoli quantità nella penisola dello Jutland e nella Scandinavia ed uno dei loro tesori, rinvenuto in Russia, pesava più di duecento libbre.

Poi, quasi improvviso, cominciò il declino dell’egemonia vichinga. Ad inferire il primo colpo furono gli Inglesi di re Harold nella seconda metà dell’XI secolo. Seguirono poi tutta una serie di sconfitte, finché ad un certo punto non si sentì parlare più dei dragoni vichinghi e delle loro incursioni lungo le coste e l’entroterra.

Eppure, malgrado tutte le loro barbare gesta, i Vichinghi apportarono un enorme contributo al progresso della civiltà europea. Le loro navi ebbero una parte di grande rilievo nella tradizione navale che contribuì allo sviluppo dell’Europa occidentale dopo l’era vichinga. Le potenti flotte francesi avevano equipaggi che venivano dalla Normandia e dalla Bretagna, terre di colonizzazione vichinga; il dominio sui mari dell’Inghilterra, durato tanti secoli, deve molto ai Vichinghi ed ai Normanni che, in tempi successivi, l’avevano conquistata.

Nonostante ciò, presto le “cocche” della Lega Anseatica, il gruppo di città mercantili tedesche che verso la fine del XII secolo si erano associate per meglio commerciare e difendersi, cominciarono a controllare il mercato dell’Europa settentrionale sostituendosi alle “gloriose” imbarcazioni vichinghe.

Era la fine di un impero marittimo durato circa tre secoli. Le spaventose teste di drago marino che avevano ornato le poppe e le prue delle navi vichinghe, incutendo terrore nei nemici, terminato il loro compito se ne tornarono nelle profondità del mare per non riemergere mai più.

Articolo di
Giusi Grimaudo

Pubblicato su Nautica prima del 1993