Ancora oggi qualcuno resta dubbioso se gli si pone la domanda: «Com’è che una nave di ferro galleggia mentre un’incudine affonda?». Evidentemente anche se da millenni conviviamo con il principio di Archimede, la scoperta del grande siracusano non è mai stata ben assimilata dall’umanità.

Perché le barche galleggiano, il Principio di Archimede

La leggenda racconta che Archimede scoprì questa legge immerso nella sua vasca da bagno; essa doveva essere ben più profonda di quelle odierne, altrimenti il grande genio avrebbe potuto scoprire solo che il raffreddamento aumenta di molto se il corpo è inserito in un ambiente bagnato! Ci piace, invece, pensare Archimede fare il «morto a galla», con i polmoni ben pieni.

Siccome il galleggiamento si ottiene quando una «forza misteriosa» eguaglia il peso ma ha direzione opposta, e siccome in acqua possiamo fare il «morto a galla» mentre in aria è molto più difficile (anche se sarebbe ben più redditizio, potendo trovare lavoro in un circo!), evidentemente possiamo dire che la forza misteriosa è dovuta al mezzo liquido e la chiameremo «spinta dell’acqua».

Fiiiiiuuuuuu… fuori l’aria ed ecco che Archimede affonda! Cosa è successo? Nulla, è solo variato il volume del corpo, senza che il peso cambiasse (l’aria per gli antichi non aveva peso). Allora la spinta dell’acqua dipende dal volume del corpo. Ma non può dipendere dal volume del corpo fuori dell’acqua, poiché essa non lo può «vedere» e non sa se sia grande o piccolo, quindi la spinta dell’acqua dipende dal volume del corpo immerso. Siccome per immergersi il corpo ha «spostato» l’acqua dai punti che lui ha occupato, la spinta è pari al peso di acqua che il corpo ha spostato! Eureka! (dal fondo della vasca). Sembra facile, ma pochi sono gli Archimede (anche se come nome non sarebbe di cattivo auspicio).

Ora che è tutto chiaro (speriamo!) facciamo un esempio. Immaginiamo tre cubi con lato di un metro. Ognuno di essi ha quindi un volume di un metro cubo, che corrisponde a 1000 litri. Il primo è fatto di polistirolo da 40 kg/m3 e, ovviamente, pesa 40 chili. Il secondo è di legno da 1000 kg/m3 e pesa 1000 chili. Il terzo è di acciaio (7000 Kg/m3) e pesa 7000 chili.

Immaginiamo di immergere il primo cubo in acqua. L’equilibrio si avrà con una spinta dell’acqua pari al peso, cioè 40 chilogrammi. Se l’acqua pesa 1Kg/litro, l’equilibrio si avrà quando il cubo avrà spostato 40 litri di acqua. Ciò avverrà quando il volume immerso del cubo sarà pari a 40 litri, e siccome un litro corrisponde ad un decimetro cubo, quando il volume immerso sarà di 40 decimetri cubi. Il volume immerso è facilmente calcolabile poiché, trattandosi di un parallelepipedo, è uguale all’area di base per l’immersione. L’area di base è pari a 1 metro per 1 metro, cioè 10 decimetri per 10 decimetri, in definitiva 100 decimetri quadrati. Se l’area di base (100 decimetri quadrati) per l’immersione deve essere pari a 40 decimetri cubi, si ricava facilmente che l’immersione è 0,4 decimetri, cioè 4 centimetri!

Eseguendo lo stesso procedimento per il secondo cubo, abbiamo che il volume di acqua spostato deve essere 1000 litri e quindi, poiché l’area di base è la stessa, l’immersione deve essere di 10 decimetri, cioè un metro. Questo significa che il corpo non galleggia né affonda. Più o meno resta dove lo si mette.

Eseguendo il procedimento per il terzo cubo, si ottiene che l’immersione dovrebbe essere 70 decimetri, cioè sette metri. Ma siccome dopo un solo metro il cubo è finito, esso non può spostare più acqua del proprio volume (servirebbero 7000 decimetri cubi mentre il suo volume è di soli 1000), quindi la spinta non potrà uguagliare il peso ed il cubo affonderà (figura 1).

Abbiamo capito che un corpo può galleggiare od affondare a seconda del peso e del volume. Potremmo dire del rapporto fra peso e volume (peso specifico), ma preferiamo di no. Infatti, se realizzassimo il terzo cubo, invece che in un blocco unico di ferro, in lamiera di spessore un millimetro, questo cubo peserebbe quaranta chilogrammi e quindi la sua immersione sarebbe identica a quella del cubo in polistirolo. Abbiamo insomma costruito una nave (o, più modestamente, un cassone galleggiante).

La differenza sostanziale è che mentre il polistirolo non può subire falle, il cubo in lamiera può permettere all’acqua di entrare. In questo caso, però, essa non è più «spostata» dai punti che occupava, o meglio è stata spostata ma con la falla può tornare ad occuparli, tutti meno quelli occupati dalla lamiera. Il volume totale della lamiera è pari a circa sei decimetri cubi (si calcola immediatamente dividendo il peso del corpo per il peso specifico, che in questo caso è 7000 Kg/m3 ovvero 7 kg/decimetro cubo; quindi 40/7 = circa 6). Nel caso di falla, dunque, la spinta massima dell’acqua potrà essere di 6 kg, mentre il peso è di 40 chili; il cubo di lamiera con la falla affonda! Così fa la nostra barca.

Cosa possiamo fare per evitare che affondi? È semplice. Basta impedire che l’acqua possa tornare, in caso di falla, in certi spazi. Potremmo pensare di realizzare delle paratie stagne in modo che in caso di falla l’acqua resti confinata in una sola zona dell’imbarcazione. A parte il fatto che l’estetica ne soffrirebbe (look da «sottomarino militare»), se l’acqua va a prua o a poppa l’assetto della barca ne sarà gravemente compromesso. Comunque è una strada valida purché si tengano le porte stagne chiuse (pensate al Titanic!).

Un’altra soluzione sarebbe quella di sigillare delle casse d’aria, magari dei gavoni. Tutto andrebbe bene finché la tenuta fosse perfettamente ermetica. Allora, per evitare problemi, riempiamo le casse d’aria con un materiale leggerissimo in cui l’acqua non entri. L’ideale è il poliuretano espanso a cellula chiusa (se il materiale fosse a cellula «aperta» permetterebbe all’acqua di «intrufolarsi», diminuendo quindi la spinta).

I lettori che sono giunti fino a questo punto staranno già pensando che rendere la propria imbarcazione inaffondabile sia uno scherzo da ragazzi. In effetti sembra molto facile. Basta calcolare il peso della barca in crociera e maggiorarlo un poco per sicurezza. Poi si ricavano i volumi delle parti che, anche immerse, non si riempiranno di acqua, come scafo e sue strutture, serbatoi a tenuta stagna, legni, etc. Per fare questo calcolo in molti casi (legni, per esempio) basta dividere il peso dei legni usati per il loro peso specifico.

A questo punto si traducono i volumi immersi in spinta, sapendo che l’acqua pesa 1 kg/decimetro cubo (in realtà per l’acqua di mare tale valore varia da 1,018 a 1,035, ma vogliamo essere inaffondabili anche al lago). Togliendo al peso la spinta, abbiamo il volume da rendere «impermeabile» all’acqua; salvo maggiorarlo un poco (basta il 5{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} nel caso del poliuretano) per considerare il peso del materiale di riempimento. Ora sappiamo quanti litri di poliuretano sigillare nei gavoni o chissà dove… ed abbiamo ottenuto l’inaffondabilità!

Calma! Le cose non sono affatto così semplici. Il procedimento è esatto ma ci sono dei piccoli inconvenienti. A parte il fatto che trovare mille litri di spazio libero sul vostro cabinato da sette metri, a vela, non è un gioco (a meno di non sigillare tutti i gavoni), avrete probabilmente reso la barca inaffondabile ma non insommergibile. La differenza è notevole. Una barca inaffondabile non affonda. È come il cubo di legno del principio di Archimede, solo un poco piùgalleggiante.

Ma dove siete voi? Su uno scafo quasi del tutto sommerso e magari con il mare mosso? Allora dovremo realizzare uno scafo che mantenga un bordo libero sufficiente a permettervi di ripararvi e persino di navigare, anche se con difficoltà. Ciò potrà avvenire per le barche a vela, che possono contare sulla propulsione del vento, in quanto i motori allagati non è che funzionino proprio bene, soprattutto se a benzina.

A questo punto l’autogonfiabile, che è ingovernabile, diventerebbe meno sicuro della vostra barca. Quanto detto è, infatti, una parte di ciò che la Marina Mercantile Francese richiede affinché un’imbarcazione, superate delle prove in mare, possa essere patentata «insubmersible» e sia esentata dall’obbligo dell’autogonfiabile a bordo.

Poiché abbiamo visto che i volumi emersi non contano ai fini dell’inaffondabilità, si potrà pensare di risolvere il problema mettendo un poco di poliuretano in più, disponendolo tutto in basso, ipoteticamente anche sotto il pagliolato. Il fatto è che ormai la nostra barca non dispone più della stabilità di forma e se non fosse per il peso della zavorra non sarebbe affatto stabile. Infatti, superato un angolo di sbandamento modesto, la barca si rovescerebbe facilmente.

In caso di falla bisogna tenere poca vela a riva! L’acqua all’interno della barca, anche se in quantità limitata, diminuisce la stabilità della stessa, come giustamente «provato sul campo» (ovvero durante una scuffiata del loro cabinato da nove metri, in una tempesta) dai due ragazzi francesi del famoso Damien. Per evitare ciò, la prova di insommergibilità della Marina Mercantile francese prevede anche che l’imbarcazione, con a bordo l’equipaggio, debba raddrizzarsi da uno sbandamento forzato di 90 gradi.

Per potersi raddrizzare l’imbarcazione avrà bisogno di riacquistare una specie di «stabilità di forma». Gliela potremmo dare mettendo le riserve di galleggiamento lontane dall’asse longitudinale della barca. Il bordo libero, rispetto al caso precedente, si riduce poiché solo quando una maggior parte di barca si è immersa queste riserve potranno dare la loro galleggiabilità.

Il problema ora consiste nel fatto che, essendo immerse affinché lo scafo non affondi, abbiamo uno scafo che si raddrizza, ma sotto la superficie dell’acqua. In definitiva, il poliuretano che dovremmo mettere sarebbe molto di più di quello necessario e posto lontano dall’asse longitudinale. Se possibile, ne dovremmo mettere anche sulla tuga, per aiutare la stabilità a barca immersa e, secondariamente, per isolare termicamente la barca (figura 5).

Ecco, quindi, che le soluzioni prodotte dai cantieri che realizzano cabinati a vela inaffondabili (principalmente il belga Etap, con barche da sei a dodici metri, ed il francese C.N.A., ex Jullien, con barche da cinque ai dieci metri) sono quelle che più si avvicinano alla soluzione ideale.

Altri problemi vengono proprio dalla schiuma poliuretanica. Non è come si immagina: «Compro uno spray magico ed il gioco è fatto!». Infatti, la schiuma rigida di poliuretano con il tempo si deteriora, se non realizzata a regola d’arte.

La sua espansione e solidificazione sono fenomeni esotermici, che rendono difficile un deciso aggrappamento alla vetroresina. Se la sua espansione è rapida può deformare la vetroresina (alcuni motoscafi con doppio scafo riempito di schiuma hanno bisogno di «stampi di contenimento» per evitare deformazioni eccessive). Ulteriori deformazioni possono nascere da una lavorazione ed un «invecchiamento» (la prima fase di vita in cui la schiuma si stabilizza) a temperatura ed umidità non controllate.

L’unica soluzione con risultati certi è quella di comprare una barca già insommergibile, progettata, studiata e provata in mare! Il costo è superiore ed i volumi interni sono inferiori a quelli dei modelli affondabili di pari dimensioni, ma la tranquillità è molto maggiore. Oppure si potrebbero realizzare dei «salsicciotti» esterni in tessuto gommato, gonfiabili in emergenza (tranquilli, ci hanno già pensato) che rendessero la nostra imbarcazione simile ad un gommone a carena rigida. Sempre che si abbia il tempo di gonfiarli!

Con questo articolo speriamo di aver chiarito che una barca progettata, costruita e provata come «insubmersible» è qualcosa di più di una barca che non affonda. Speriamo che anche i nostri enti tecnici ed i politici possano capirlo, per seguire la via aperta più di venti anni fa dai loro colleghi d’oltralpe.