Articolo di C.F. (CP) Francesco Calia,
Comandante della Capitaneria di Porto di Oristano

Pubblicato su Nautica On Line il 17 Aprile 2008

INTRODUZIONE

La tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione rappresenta uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, la quale prevede che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico nazionale”(art.9).Alla luce di tale inquadramento, in cui il patrimonio storico ed artistico rileva quale importante fattore di identità nazionale con importanti riflessi anche di natura economica, la scelta del legislatore ordinario è stata quella di riservare al Codice Penale gli interventi di tutela indiretta che non considerano il bene storico-artistico nella sua autonomia giuridica (E’ il caso, per fare un esempio, del danneggiamento previsto dall’art.635 Cod.Pen. che, qualora ha per oggetto beni culturali, determina un’aggravante della pena e la procedibilità d’ufficio), e di lasciare ampio spazio nella legislazione speciale alle ipotesi di protezione diretta, laddove il bene culturale assume ad oggetto di cura immediata da parte dello Stato, indipendentemente dalla sua appartenenza pubblica o privata e anche, addirittura, nei confronti di possibili offese arrecate al bene dal suo stesso proprietario.

Il grande sviluppo che sta avendo in questi anni il diportismo subacqueo, facilitato da nuove tecniche e da materiali che consentono ai numerosi appassionati, attratti dal fascino dell’esplorazione del mondo sommerso, di potersi avvicinare all’immersione su fondali anche profondi, sta al contempo ponendo seri problemi in ordine alla tutela del patrimonio archeologico sommerso, dal momento che risultano sempre più numerosi i prelievi non autorizzati di beni rinvenuti. Al di la delle attività di ricerca e di prelievo illegali condotte da organizzazioni appositamente costituite, si fa qui riferimento al deprecabile fenomeno che vede tanti comuni cittadini indotti a ritenere che l’impossessamento di un’anfora o di altro oggetto proveniente da relitti sommersi non costituisca un crimine ma, al più, una ‘debolezza’ pure giustificabile per la gran quantità di reperti esistenti nel nostro Paese e per l’apparente disinteresse delle Istituzioni verso questo patrimonio. In realtà, è appena il caso di segnalare che la sottrazione di un bene alla fruizione comune si accompagna spesso al pericolo di perdita o di danneggiamento dello stesso per una sua non corretta conservazione, oltrecchè alla sua forzata estrapolazione dal contesto di provenienza con la conseguente dispersione della testimonianza storica che esso può offrire. Si pensi sotto questo aspetto, alle conoscenze sui traffici marittimi e sulle rotte commerciali che un carico di anfore rinvenuto in una zona di mare può offrire, ovvero alla ricostruzione di eventi bellici che in essa si svolsero, e così via.

CONSIDERAZIONI

Nell’ordinamento giuridico, le disposizioni aventi specificamente come oggetto giuridico il patrimonio storico-artistico vanno rinvenute dapprima nella Legge 1 giugno 1039 n.1089 “Tutela delle cose d’interesse storico ed artistico”, e quindi, dopo l’abrogazione di siffatta normativa ad opera del D.Lvo n.490/1999, nel “T.U. delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali”, ed, infine, in una prospettiva di continuità di normazione, nel “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, approvato con Decreto legislativo 22 gennaio 2004 n.42.In questo articolo, l’attenzione viene posta proprio sulle fattispecie dell’omessa denuncia di ritrovamento (art.90 Cod.) e dell’impossessamento illecito di beni (art.176 Cod.), che piace definire ‘reati archeologici’ veri e propri, rispetto alle rimanenti figure criminose che pure possono configurarsi relativamente ai beni in questione.

In via preliminare, deve farsi cenno alla disciplina generale dei ritrovamenti in mare prevista dal Codice della navigazione che, all’art.510, pone l’obbligo per il ritrovatore di “relitti” di farne denuncia all’Autorità marittima entro tre giorni dal ritrovamento o dall’approdo della nave se esso è avvenuto in corso di navigazione, consegnando ad essa le cose ritrovate. Il ritrovatore che adempie a tali prescrizioni acquisisce il diritto al rimborso delle spese sostenute e ad un compenso (che varia a seconda se i beni in questione sono ritrovati in mare o sul demanio marittimo), che saranno corrisposti previa vendita degli stessi, fermo restando che “gli oggetti di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico … sono devoluti allo Stato” (art.511). Sotto l’aspetto sanzionatorio, l’art.1146 dello stesso Codice sanziona con la reclusione fino a tre anni o con la multa fino a Euro 1032 chi si appropria indebitamente dei relitti ritrovati, nei casi in cui ha l’obbligo della denuncia (la pena è aumentata fino ad un terzo se la violazione è commessa dal personale marittimo).

Analogamente a quanto previsto da detta normativa, l’art.90 del Codice dei culturali stabilisce che chi scopre fortuitamente cose immobili o mobili indicate nell’articolo 10 (Art.10 n.1 : ” Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”), deve farne denuncia entro ventiquattro ore al soprintendente o al sindaco ovvero all’autorità di pubblica sicurezza e provvedere alla conservazione temporanea di esse, lasciandole nelle condizioni e nel luogo in cui sono state rinvenute (salvo che si renda necessaria la loro rimozione per meglio garantirne la sicurezza e la conservazione). Anche in questa occasione, la mancata ottemperanza agli obblighi predetti comporta l’applicazione della sanzione di cui all’art.175 lett.b), e cioè l’arresto fino ad un anno e l’ammenda da euro 310 a 3.099.

Nella maggior parte dei casi, l’ipotesi della mancata denuncia di beni ritrovati (o di ritrovamenti in seguito ad attività abusiva di ricerca) viene ad operare in concorso con la fattispecie del possesso illecito di beni culturali, che comporta, a norma dell’art.176, la sanzione della reclusione fino a tre anni e la multa da euro 31 a euro 516,50. La pena è della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 103 a euro 5.033 se il fatto è commesso da chi abbia ottenuto la concessione di ricerca prevista dall’art.89.

Nella precedente disciplina di cui alla legge n.1089/1939, se pure veniva prevista la medesima fattispecie dell’impossessamento di cose d’antichità e d’arte, non era al contempo stabilita un’apposita pena, avendo il legislatore dell’epoca preferito operare il rinvio al punitivo di cui all’art.624 Cod.Pen. (Furto), e a quello dell’art.625 Cod.Pen. (Circostanze attenuanti) nell’ipotesi di reato commesso “da coloro ai quali venne fatta la concessione o data l’autorizzazione” (rispettivamente, ad eseguire ricerche archeologiche o, in genere, opere per il ritrovamento di beni in qualunque parte del territorio del Regno o su immobile proprio). Ora, ben il legislatore speciale ha ritenuto di “chiudere” all’interno del medesimo testo la disciplina generale di dette fattispecie, stabilendo anche la componente sanzionatoria.

Al contempo, non è unanimemente condivisa la possibile configurabilità del tentativo, essendo ammesso dalla giurisprudenza di merito laddove vi sia certezza che il bene tutelato si trovi nell’area in cui il ricercatore compie la propria opera e rimanendo escluso dalla dottrina in relazione al tenore letterale della norma (Chiunque si impossessa di cose … rinvenute) e dai principi generali che disciplinano la figura giuridica del tentativo (soprattutto, l’idoneità e l’univocità degli atti posti in essere da chi opera il tentativo).

Analogamente controversa risulta la circostanza se, ai fini della configurabilità del reato, deve ricorrere l’ulteriore aspetto dell’interesse archeologico del bene, e cioè se oltre alla antichità del bene se ne debba stabilire altresì l’interesse in sé e per sé considerato. La questione è più rilevante di quanto possa apparire ad una superficiale considerazione, dal momento che il reato rimarrebbe escluso ove un bene, per sua natura, o perché frammentario o perché non pregiato (si pensi, ad esempio, alle anfore di uso comune che spesso, al di là dell’interesse costituito dalla loro antiquitas, non offrono particolari ragioni di pregio) sia ‘scarsamente interessante’. Dopo qualche oscillazione, sembra tuttavia che la giurisprudenza della Corte di Cassazione sia oggi orientata a ritenere irrilevante, circa la configurabilità del reato di cui trattasi, se il bene presenti un suo particolare pregio o un elevato valore anche commerciale, ammettendosi solamente l’applicabilità della circostanza attenuante, nella determinazione concreta della pena, se si sia trattato di danno di speciale tenuità.

Maggiormente interessante appare, infine, il rapporto intercorrente fra la figura di reato fin qui in esame e quella della ricettazione, prevista dall’art.648 Cod.Pen., che investe, in realtà, il più generale problema dell’ammissibilità del possesso di beni archeologici da parte di privati, di cui pure occorrerà fare cenno. In questo caso il delitto di illecito impossessamento di beni culturali appartenenti allo Stato costituisce ‘reato presupposto’ della ricettazione ; di conseguenza, occorrerà rifarsi al principio generale posto nell’art.110 Cod.Pen., per cui il soggetto risponde sia del fatto proprio che del fatto altrui per il semplice, consapevole inserimento nello svolgimento della vicenda criminosa, mediante condotte preparatorie o esecutive, preventive o ancorché successive, ma comunque psicologicamente e materialmente funzionali alla realizzazione del reato. Del resto, non occorre che il presupposto medesimo del delitto di ricettazione, cioè il delitto anteriore (che, nel nostro caso, si individua nell’impossessamento illecito), sia accertato necessariamente in ogni suo estremo fattuale, poiché la provenienza delittuosa del bene posseduto può ben desumersi dalla natura, varietà e dalle caratteristiche del bene stesso. In campo archeologico simile impostazione ha un effetto estremamente importante, dal momento che il possesso di beni archeologici è, di per sé, fatto obiettivo tale da comportare la presunzione di illegittimità perché riguardante beni dello Stato, con l’inevitabile conseguenza, come vedremo meglio in seguito, che si porrà a carico del possessore l’onere di provare la legittimità del possesso, quando tale prova dovrebbe, in via normale, essere assunta dalla pubblica accusa (nel senso che dovrà essa provare, questa volta, l’illegittimità).

Al contrario, di più difficile qualificazione è sembrata, soprattutto in sede giudiziaria, la figura della ricettazione in assenza di dolo (elemento soggettivo) o, addirittura, ove ricorra il c.d.’errore scusabile’ circa la natura del bene detenuto, tant’è che la via giurisprudenziale maggiormente praticata in simile evenienza è sembrata quella di contestare la ricorrenza del furto comune ai danni del proprietario. Risponde a titolo di dolo eventuale, tuttavia, chi, riguardo al bene posseduto, si trovi in situazione tale da far ragionevolmente ritenere che da parte sua non vi sia stata una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza del bene, ma anche la consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o ricevuta potesse essere di illecita provenienza.

Più in generale v’è da dirsi che, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, è onere del privato fornire la prova che il possesso del bene, affinché se ne possa affermare la legittimità, deve risalire ad una data certa antecedente all’entrata in vigore della legge 20 giugno 1909 n.364 che, disciplinando specificamente all’art.15 i reperti archeologici, ha per la prima volta posto la regola dell’appartenenza a titolo originario allo Stato delle cose d’interesse culturale ritrovate nel sottosuolo : anche se, così facendo, è venuta a determinarsi una vera e propria ‘inversione dell’onere probatorio’, dal momento che, come detto prima, il mero possesso del bene fa ‘presumere’ la colpevolezza del possessore del bene, il quale si ritroverà dunque nella non agevole posizione di dover ricostruire il percorso storico del bene medesimo fino a risalire ad una data antecedente al 1909 che lo metta al riparo da contestazioni circa l’illegittimità del possesso. Peraltro, è il caso di aggiungere che il possesso derivante da scoperta o ritrovamento o da altro fatto qualificante avvenuto in data anteriore alla legge n.364/1909 non rappresenta, in realtà, fatto costitutivo della proprietà in capo al privato, ma solamente circostanza impeditiva dell’acquisto del bene archeologico, a titolo originario, da parte dello Stato : sotto un profilo pratico, la precisazione non è di scarsa rilevanza, dal momento che vale a ribadire la ‘regola generale’ secondo la quale è lo Stato il vero ‘dominus’ di ogni bene ritrovato o scoperto al suo interno, mentre il possesso del privato non può che costituire una mera eccezione, a carattere comunque residuale rispetto al principio generale della proprietà statuale.

CONCLUSIONI

La tutela del patrimonio archeologico sommerso richiede un’azione di contrasto forte, basata sulla vigilanza delle attività d’immersione nelle zone a rischio archeologico, oltrecchè sui controlli ai natanti in banchina, ad opera di tutte le Forze di polizia che operano sul mare.E’ innegabile, tuttavia, che il controllo e la repressione devono procedere di pari passo con l’affermazione di una nuova cultura nei riguardi dell’archeologia subacquea, che sia improntata al rispetto dei singoli beni intesi quale testimonianza del passato e, soprattutto, alla consapevolezza che solamente la fruizione generale del patrimonio storico-archeologico può garantire il giusto rilievo del valore “eredità culturale” per l’umanità intera che esso reca con se.

In un’ottica siffatta, l’invito agli appassionati che sempre più numerosi si dedicano alle immersioni subacquee è, dunque, quello di non lasciare spazio agli egoismi che sottraggano il bene al godimento della collettività e che possano risultare dannosi, in definitiva, al bene medesimo una volta estrapolato dal contesto di provenienza.