Lungo la costa del Queensland, all’interno della Grande Barriera corallina, giace il relitto di una nave: a trenta metri di profondità spiccano, sul fondale fangoso, lo scafo della Yongala, i suoi frammenti sparsi e molti oggetti che raccontano la tragedia. Intorno si è formato un habitat idoneo a molte specie delle acque australiane.

All ships – All ships – All ships – Avviso di uragano!”
“All ships, all ships, all ships …”

L’avviso concitato dell’operatore era stato affidato alle onde elettromagnetiche ma, in quella mattina del marzo 1911, poche erano le navi equipaggiate con sistemi radio: solcando l’etere, il messaggio aveva incrociato indecifrato la rotta della SS Yongala e aveva continuato la sua inutile corsa oltre la Grande Barriera Corallina, dove l’aria era già da molte ore carica di tempesta. Il novantesimo, ed ultimo, viaggio della Yongala aveva avuto inizio nove giorni prima a Melbourne, da dove la nave della Adelaide Steamship Company faceva solitamente linea per Cairns, risalendo la costa orientale australiana. Nello stesso momento in cui Yongala lasciava gli ormeggi a Melbourne, la furia impazzita di oltre centocinquanta nodi di vento stava spazzando gli atolli lontani della costa settentrionale dell’Australia: l’uragano aveva appena iniziato la sua corsa devastatrice nel Mar dei Coralli ed ogni ora muoveva di venti chilometri verso Sud, parallelo alla costa. All’insaputa di tutti, perché i Northern Territories erano, allora come oggi, totalmente disabitati dall’uomo bianco.

La notte non è ancora scesa, e già siamo sul fondo per una immersione notturna … anticipata. O meglio, siamo di nuovo sott’acqua, visto che è la quarta volta che oggi ci caliamo su questo fondale. Contro il soffitto verde della superficie ancora illuminata dal tramonto – qui giù invece è già buio completo – una sagoma circolare, con una lunga coda scura, sorvola la massa d’acciaio nera ed incombente. È il grosso trigone già compagno delle immersioni di quest’oggi, in una festa di dentici, di cernie e di carangidi: ci plana accanto, per un attimo indeciso per la nostra presenza; poi si ferma sul fondo a ridosso delle lamiere e con una scrollatina di spalle, che sullla sua forma discoidale si tramuta in un’onda lungo tutto il corpo cartilagineo, si getta addosso un lenzuolo di sabbia e si blocca immediatamente nel sonno.

Marzo è il mese finale della stagione degli uragani, in Australia, ed in molti erano convinti che il periodo critico fosse già alle spalle. Risalendo lungo la costa orientale australiana Yongala, frenata da una forte corrente contraria, era finalmente entrata nelle acque del Queensland, facendo sosta a Brisbane. Il vento stava rinfrescando, ma il tempo era ottimo: il sole splendeva in cielo, solo qualche nuvola all’orizzonte. Diversi messaggi telegrafici avevano avvertito il capitano William Knight che in quelle ore una nave aveva incontrato venti molto forti e piogge torrenziali; ma il capitano, considerando che questo era accaduto molto più a Nord di Cairns, la sua mèta, non se ne era dato troppa cura.

Una strattonata brusca: mi giro di scatto. È Roberto che mi serra il braccio: due squali tigre sono sbucati dal nulla a due metri di distanza da noi. Sono grossi, il fascio di luce dei nostri fari non riesce nemmeno ad illuminare tutto il corpo … Un attimo e sono già spariti. A gesti Roberto mi fa capire che, davanti ad i suoi occhi, hanno attaccato e divorato un dentice. Nell’acqua nera della notte siamo improvvisamente consapevoli di ogni minimo movimento attorno a noi.

Il 23 marzo Yongala, dopo l’ultima sosta a Mackay, era salpato verso mezzogiorno diretta a Townsville. Nel corso del pomeriggio il tempo era andato decisamente peggiorando. Il vento aveva raggiunto i cinquanta nodi: Yongala navigava oramai in una burrasca, anche se il mare era ancora relativamente calmo, visto che la nave si trovava ancora a ridosso delle numerose isolette sparse lungo la rotta. Mentre la nave, sotto una pioggia torrenziale, entrava nelle acque delle isole Whitsunday, la cena era stata servita ai passeggeri.

Una fila di bottiglie spunta dal sedimento depositato in anni di immobilità sul fondo del mare. Ne solleviamo delicatamente una, ed una cascata di fango scivola verso il basso, rivelando una scritta in rilievo sul vetro chiaro: “Jones and Co. Ltd – Hobart and Sidney”. Sarebbe bello poterla portare con noi, ma le leggi australiane sono ferree: impossibile prelevare alcunché, pena una multa di 10.000 dollari australiani. E forse è meglio così, e non soltanto per rispetto a chi si immergerà dopo di noi, ma soprattutto per quelle 122 persone che insieme a questa nave persero la vita. Dal sedimento scivola fuori anche un sottilissimo oggetto metallico che sembra un numero, un “1”: forse indicava il salone di prima classe, forse il numero di una cabina. Vicino, una bottiglietta di profumo da donna. Una tartaruga si affaccia nella stiva: non è affatto intimorita dalla nostra mole, né dal rumore delle bolle d’aria che risalgono verso la superficie. Nuotiamo assieme ad essa per dieci minuti, lontano dal relitto, scoprendo qua e là oblò, bulloni, pezzetti di lamiera.

Oltre la Whitsundays, al traverso dell’isola di Hayman, il mare era cominciato a crescere rapidamente. La cena era stata subito cancellata e tutti i passeggeri, turbati, avevano fatto ritorno nelle proprie cabine. Il capitano Knight aveva deciso di proseguire nonostante la burrasca: avrebbe potuto scegliere di riparare a Gloucester Island; ma non lo fece, ed era andato oltre. E così la nave, date le condizioni del vento, e soprattutto del mare, aveva passato il punto di non ritorno. Yongala aveva navigato diretta nel ventre dell’uragano, verso il suo destino ineluttabile. La navigazione era divenuta impossibile, la plancia completamente avvolta da una cascata di pioggia e di mare. La velocità della nave era stata ulteriormente ridotta, ma questo aveva fatto sì che la prua si ingavonasse sempre di più nelle onde: montagne di acqua spazzavano costantemente la coperta, strappando dal ponte il cargo.

L’acqua è particolarmente limpida questa mattina: dalla superficie si vede perfettamente quasi tutta la sagoma della nave. Il branco sterminato di platax giovanili è sospeso immobile lungo la fiancata sinistra; sulla destra migliaia di carangidi argentati. Un serpente di mare si stacca improvvisamente dal fondo, lanciato verso la superficie dove riempirà d’aria i polmoni prima di una nuova lunga immersione. Tre aquile di mare scivolano in formazione lungo la parte superiore dello scafo: le seguiamo fino alla prua, fino alle lettere incrostate di corallo che formano il nome “Yongala”. Sotto la prua, le due cernie giganti soprannominate “maggiolini Volswagen” per le loro dimensioni, sono ferme immobili a bocca spalancata nella corrente. Un morbido e profondo canto riecheggia lontano accompagnato da fischi più striduli: è il canto di una balena. Non la vedremo mai ma, quando riemergeremo, i nostri compagni di avventura ci confermeranno che una balena con il suo piccolo è passata ad un centinaio di metri da noi, accompagnata da cinque delfini. Loro era il fischio acuto, che avevamo già sentito in altre immersioni qui sullo Yongala. Uno di questi è passato accanto al nostro instancabile amico fotografo George, fermo in decompressione, serrando un pesce in bocca.

Tutte le aperture erano state assicurate ma, in quelle condizioni, niente avrebbe potuto reggere la furia combinata del mare e del vento: nonostante tutti gli sforzi, la nave aveva cominciato ad imbarcare acqua. Yongala rispondeva con difficoltà sempre maggiore alle batterie di onde che martellavano con violenza crescente il suo scafo: solo un miracolo avrebbe potuto salvare la nave. Yongala si stava avvicinando a Capo Bowling Green. Era passata la mezzanotte, e la nave si trovava ad una quindicina di miglia da terra.

Ci infiliamo nel ventre scuro della nave seguendo una cernia. Pile disordinate di mattoni sono sparpagliate ovunque. In un angolo, il sedimento uniforme ci indica che qui ogni cosa è rimasta indisturbata per ottant’anni, non profanata – soltanto perché inaccessibile – dalle centinaia di subacquei che qui si immergono ogni anno. Fra bottiglie di ogni foggia, spuntano alcuni resti umani.

Amici e parenti si erano affollati sul molo la mattina successiva, il 24 marzo: l’arrivo della Yongala era previsto per le sei, ma del vapore nessuna notizia. Poi, alla spicciolata, erano cominciate a rientrare in porto altre navi che, sorprese dall’uragano, avevano cercato riparo lungo la costa. Poco dopo erano partite le prime ricerche: si sperava che Yongala fosse al riparo di qualche isola, magari con il timone od i motori in avaria.

Un rumore secco, come di un ramo di corallo spezzato: in superficie il branco di carangidi scappa frenetico in tutte le direzioni. In mezzo alla confusione piombano due squali che, a scatti, si avventano sui più deboli, sui più lenti. Un grosso dentice, che gli australiani chiamano ‘Giant Trevally”, si precipita verso il relitto per trovarvi riparo: è ferito, e decine di altri trevally lo inseguono strappandogli di dosso lembi di carne viva. È tutto vero, autentico, è la lotta per la sopravvivenza. È la dimostrazione emblematica che il mare non è un acquario sfavillante di colori, almeno non soltanto, o non sempre. Abituati come siamo a quei veri e propri spettacoli allestiti sul fondo marino, gli “shark feeding”, è invece emozionante essere testimoni in prima persona di questi momenti autentici e violenti della vita del mare.

Il Sidney Morning Herald, il 27 marzo 1911 apriva così: “Yongala manca da molte ore all’appello. I soccorsi partono da Brisbane”. Anche la Cooma era arrivata in porto: la nave a vapore aveva seguito la stessa rotta dello Yongala, ma anch’essa non aveva visto nulla. “Nessuna notizia ancora della Yongala dispersa” – si leggeva nei titoli del giornale il giorno successivo. Il 29 marzo: “A quattro giorni dal suo mancato arrivo, parte del carico stivato all’interno della Yongala è stata rinvenuta spiaggiata lungo la costa. Nessuna traccia di equipaggio e passeggeri. Persa ogni speranza”.

NOTIZIE UTILI

Da ottant’anni il relitto del vapore Yongala giace a trenta metri di profondità su di un fondale fangoso al largo della costa del Queensland, all’interno della Grande Barriera Corallina, coricato sul fianco destro, con la prua a Nord, in rotta per il porto di Townsville, dove avrebbe dovuto far sosta prima dell’ultima tappa verso Cairns. Il relitto rappresenta l’unico punto solido in un plateau fangoso esteso per miglia e miglia: una vera e propria oasi nel deserto per una complessa comunità animale che annovera dai coralli agli squali, dai serpenti di mare ai trigoni, e tartarughe, aquile di mare, cernie, platax, carangidi e dentici. Nonostante sia un relitto molto popolare fra i subacquei, la vita animale è totalmente incurante della presenza umana. Due delle tre imbarcazioni della “Mike Ball Dive Expeditions” vi effettuano delle crociere subacquee di un paio di giorni, partendo da Townsville. Per informazioni contattare la Scubatour (tel. 06-808.8989/8587762), oppure il Queensland Tourist and Travel Corporation (QTTC) a Monaco (fax 0049-89-2603530).

Per raggiungere Townsille, la compagnia di bandiera australiana Qantas collega Roma con Cairns,l’aeroporto più prossimo alla Grande Barriera Corallina. Da Cairns a Townsville il volo dura circa un’ora.

Testo e foto di Eleonora de Sabata e Roberto Rinaldi