Chi naviga dovrebbe sempre tener presente la possibilità del naufragio e, soprattutto, chi vagabonda per mari lontani dovrebbe imparare a cavarsela da solo, in tutti i casi di emergenza, sia in mezzo al mare che su un’isola o una zona deserta; ma anche chi percorre rotte vicine, può trovarsi in situazioni drammatiche nelle quali la sopravvivenza dipende dalla capacità di saper fare, presto e bene, quel che si deve.

I marinai raccontano, con grande rispetto, di quelli che sono stati capaci di sopravvivere e di tornare a casa, da soli, dopo un naufragio nel quale avevano perso tutto, fuorch&eacute il coltello a serramanico.

A parte la evidente convenienza del prepararsi alle emergenze, sviluppare le nostre capacità di sopravvivenza pu&ograve essere di per sè uno dei tanti modi per godersi la vita in barca.

Imparare ad accendere il fuoco senza fiammiferi, o distillare l’acqua di mare con il calore del sole, è divertente e può essere piacevolmente utile, persino in molte circostanze “tranquille”.

Ma, per quanto si possa essere ben preparati, in navigazione si dipende sempre da mille variabili, affidate inevitabilmente al caso e alla fortuna. Ed il fascino del girare il mondo in barca a vela deriva anche dal sentire quel brivido sottile, quando ci si allontana dalla terraferma e ci si rende conto che, in qualche modo, si sta giocando il tutto per tutto.

Sommario

PREVEDERE L’IMPREVEDIBILE Si dice che l’arte marinaresca richieda la capacità di prevedere l’imprevedibile. In effetti l’esistenza stessa richiede questa capacità, ma nella vita “terrestre”, spesso monotona, ce ne dimentichiamo volentieri; il mare invece ce lo rammenta in continuazione, con molta efficacia. Tuttavia, la sensazione di avere il pieno controllo della situazione è una delle più fallaci e più pericolose, in barca.

L’esperto marinaio si distingue dal principiante incompetente, anche dal fatto che ricontrolla tutto, di tanto in tanto, tranquillamente, ma con molta attenzione. Chi naviga spesso sa perfettamente che non può fidarsi troppo delle informazioni che provengono da una sola fonte. Per cui darà un’occhiata al motore ed alla sentina, anche quando gli strumenti non segnalano niente di irregolare; controllerà la posizione indicata dall’elettronica, confrontandola con la posizione stimata (che ricava dal contamiglia e dalla bussola) e girerà per il ponte, accertando che tutto sia in ordine (in particolare le coppiglie ed i perni del sartiame) e qualche volta salirà in testa d’albero a verificare che anche lì tutto sia a posto.

CINTA E BRETELLE In mare è bene “tenersi su i pantaloni con cinta e bretelle”. Infatti i guasti imprevisti a bordo sono molto frequenti, specialmente su barche vecchie e malandate o su quelle di cattiva qualità, e soprattutto durante il brutto tempo, che mette cose e persone a dura prova.

Sulle navi tutto deve essere almeno doppio, ma, su quelle più moderne e meglio attrezzate, si vedono spesso anche quattro radar.

Su una piccola barca a vela ciò non è possibile, ma certo si dovrebbero avere più pompe di sentina, diverse ancore con molta cima e catena, alcune bussole (anche da rilevamento) e si dovrebbe poter contare su diversi sistemi di navigazione (elettronica e non) e sulla possibilità di usare il motore fuoribordo del dinghy, od il generatore di corrente, come motore ausiliario di emergenza.

Ricordate che le pompe di sentina più efficaci sono quelle meccaniche collegate al motore e quelle a mano; quelle elettriche, invece, sono molto comode ma poco affidabili. Infatti l’impianto elettrico è il primo a mollare, se la barca si riempie d’acqua.

LE VIE D’ACQUA A bordo possono crearsi falle perch&eacute i materiali con i quali è costruito lo scafo cedono (per usura, ossidazione od errori di progettazione), oppure perch&eacute la barca ha urtato contro qualche cosa di solido (scogli, altri natanti, relitti, iceberg, o grossi cetacei).

Lo sfondamento dello scafo causato dalla forza delle onde non è impossibile, ma è davvero molto raro per le imbarcazioni costruite con un minimo di buon senso (vedi a questo proposito anche l’articolo “Antico, Moderno… Anzi Giusto” sul n. 381 di « Nautica» ). Però nelle burrasche supreme, nei cicloni tropicali e nei tifoni, in effetti, una barca a vela può essere distrutta anche dall’acqua. Questo avviene, in genere, quando la barca, sollevata da un grosso frangente, viene trascinata a forte velocità per qualche decina di metri, per essere poi rigettata nel cavo dell’onda, traversata rispetto alla direzione del movimento. L’impatto della vulnerabile fiancata con l’acqua – praticamente ferma rispetto al rapido spostamento del frangente – può essere così violento da sfondare anche scafi abbastanza robusti.

Ecco perch&eacute si usano ancore galleggianti o sistemi analoghi per frenare la barca ed impedirle, quindi, di partire in queste folli corse.

Infatti, gli urti contro le onde che si rompono, subiti da una barca trattenuta da un’ancora galleggiante, sono molto meno distruttivi e si scaricano sulla prua la parte più resistente dello scafo.

Comunque, se uno skipper programma coscienziosamente i suoi spostamenti non naviga durante le stagioni dei cicloni e sceglie i periodi meteorologicamente migliori ed ha, quindi, pochissime probabilità di incappare in una burrasca suprema, così poche quante ne ha di incontrare un terremoto od un maremoto.

A meno che non ci sia qualcuno che ce l’ha con lui ed è capace di fargli arrivare le sue maledizioni…

UN CICLONE INVOCATO Quando il mio amico giapponese Kenj ha traversato il Pacifico insieme a Valeria, che era stata la mia compagna per otto intensi anni di navigazioni intorno al mondo, è incappato in un brutto ciclone tropicale, fuori stagione.

Io avevo percorso una rotta simile, per la prima volta da solo, un mese prima di loro ed un pò più a sud. Ero decisamente disperato per la separazione da Valeria e da quello che era stato il mio “migliore amico” e debbo confessare che ho augurato loro “tanti” problemi, ma non troppo gravi, e sembra proprio che il cielo mi abbia esaudito: il ciclone è stato solo uno dei numerosi incredibili accidenti che gli sono capitati, tutti finiti bene, però.

Kenj aveva a bordo un pò di elettronica, tra cui il weather facsimile ed una buona radio trasmittente. Quindi, appena letto sul fax meteorologico che si stava avvicinando un ciclone, molto in anticipo rispetto alla stagione indicata dalle “Pilot Charts”, si mise in contatto radio con Tokio, chiedendo indicazioni sulla probabile traiettoria della tempesta tropicale. Il personale del servizio meteorologico, che disponeva di un potente computer, immise i dati della loro posizione nell’elaboratore elettronico e ne ricavò quindi la rotta più consigliabile per disimpegnarsi dalla terribile perturbazione.

Kenj seguì immediatamente il consiglio e… il ciclone cambiò strada e gli piombò addosso, il giorno dopo. Valeria era terrorizzata!

Sgombrarono completamente la coperta, portando sotto tutto quello che c’era di amovibile, dal dinghy alle ancore, dalla zattera autogonfiante ai tangoni. Tolsero tutte le vele e persino le numerose drizze esterne dagli alberi (il “Trade Wind” di Kenj è un vecchio ketch di legno, a comenti inchiodati, anche tra di loro); chiusero quindi perfettamente i boccaporti e passarono una notte interminabile, chiusi dentro e martoriati dai continui urti di onde gigantesche. Erano “appesi” a 200 metri di cavo, collegati ad un’ottima ancora galleggiante (che Kenj si era autocostruito e che descrivo in un altro articolo). Hanno poi raccontato che il vento a volte soffiava così forte, che se fossero usciti, li avrebbe trascinati via, ammesso che avessero potuto resistere alle valanghe d’acqua che incessanti spazzavano la coperta.

Ma la mattina dopo il tempo ha ricominciato a migliorare…

Loro, malconci, si sono sentiti comunque dei miracolati per essere riusciti a farcela ed hanno incominciato lentamente a fare l’inventario dei danni subiti. Tra l’altro si accorsero che la violenza del vento e dell’acqua aveva staccato la pittura dalla coperta, quasi fosse stata scartavetrata.

IL RISCHIO DI COLLISIONE Considerata la strabiliante evoluzione dell’elettronica, probabilmente presto saranno disponibili sofisticati ecoscandagli orientabili, o sonar, economici, pratici e di ridotte dimensioni che potranno essere installati anche su piccole imbarcazioni a vela. Per il momento, tuttavia, l’urto contro un relitto, un iceberg affiorante o un grosso cetaceo è un rischio inevitabile.

Non mi dimenticherò mai di quella volta che, solo in mezzo al Pacifico, stavo guardando col binocolo l’isola di Fathu Hiva per individuare l’ingresso della Baia delle Vergini. All’improvviso, una massa scura si è sollevata dal mare ed ha riempito il mio campo visivo; contemporaneamente sono stato investito da spruzzi d’acqua e da un forte odore di alghe, ho abbassato subito il binocolo ed ho visto, sollevata proprio davanti alla prua della mia barchina, l’enorme coda di una balena. Era più grande di noi ed avrebbe potuto schiacciarci come noccioline. Io ero paralizzato da un rispettoso stupore e guardavo questa gigantesca falce che ci sovrastava, mentre la mia piccola “Moana” continuava a correrle incontro, quasi fosse impaziente di farsi spiaccicare.

L’immenso animale è sprofondato negli abissi, giusto un attimo prima che lo toccassimo.

RELITTI GALLEGGIANTI Soprattutto di notte è impossibile scorgere una balena addormentata oppure un container pieno, o un relitto che galleggia a pelo d’acqua.

Le uniche prevenzioni possibili in questi casi sono la robustezza dello scafo e la sua inaffondabilità.

Le barche di acciaio (chiamato più comunemente ferro) hanno dimostrato più volte di saper superare collisioni anche terribili (vedi il mio articolo “I materiali per lo scafo” sul n. 364 di «Nautica») e le imbarcazioni inaffondabili, come i pluriscafi, offrono ricovero e provviste all’equipaggio, anche se molto danneggiate o capovolte (vedi su «Nautica» n. 362 e 363 “Perché un multiscafo?” e “Appoggiarsi al mare”).

COLLISIONI CON LE NAVI Gli urti con altre imbarcazioni, invece, possono essere evitati da una accorta tecnica di navigazione.

In altri articoli ho avuto occasione di spiegare meglio come mi sono convinto che sulle barche piccole gli strumenti più utili, pratici ed economici per evitare le collisioni con le navi in alto mare siano i riflettori ed i rilevatori di radar. Il radar, infatti, che è senz’altro lo strumento pi&ugrave efficace, ha il difetto di essere costoso e di consumare molta elettricità.

Vi ricordo che due riflettori piccoli sono più facili da sistemare di uno grande e spesso riflettono un’eco più forte.

Il rilevatore di radar nelle vicinanze (radar detector o radar watch) con l’uso dell’allarme dà una grande libert&agrave e tranquillità a chi sta facendo il turno di guardia, ed è indispensabile per i navigatori solitari.

Questo meraviglioso strumento, oltre a suonare l’allarme nel caso si stia avvicinando una nave o un’altra imbarcazione con il radar in funzione, ne indica anche la distanza e la direzione e tutto questo con un costo d’acquisto di due o trecentomila lire ed un consumo elettrico irrisorio (pochi milliwatts).

LE VEDETTE SULLE NAVI Con buona visibilità, niente vale più di una buona vedetta umana che scruta l’orizzonte, per tutti i suoi 360 gradi, ogni dieci, quindici minuti al massimo.

Per questo lavoro sono molto comodi i timer che suonano dopo pochi minuti e che consentono, quindi, di rilassarsi e di occuparsi di altro, negli intervalli tra uno sguardo e l’altro.

Comunque molto lontano dalla terra, a bordo di una piccola imbarcazione, è sempre bene tener presente che, con tutta probabilità, l’altra imbarcazione non ci ha visto e regolarsi di conseguenza.

Al largo le guardie di vedetta, sulle navi, sono molto poco affidabili, anche perch&eacute sono composte da più persone, per cui ognuno pensa che tanto ci sono gli altri che vegliano…

Naturalmente c’è anche il radar, con il suo allarme, che lavora infaticabile, ma, in alto mare, è “settato” nel suo raggio d’azione più ampio e nella sua sensibilit&agrave minima, anche per evitare che faccia scattare l’allarme per qualche eco parassita; quindi è praticamente impossibile che il radar rilevi il segnale prodotto da una piccola barca, a meno che non sia dotata di un ottimo riflettore radar.

GLI SCARICHI A MARE Le falle più frequenti non causate da urti o collisioni si producono negli scarichi e nelle prese a mare del pozzetto, della toilette, del motore, ecc. Si tratta generalmente di piccole perdite e possono essere riparate abbastanza facilmente.

Quindi, se vi accorgete che state imbarcando acqua, cominciate sempre con il controllare gli scarichi a mare.

COME TAPPARE LE FALLE Ho visto tanti sistemi, anche fantasiosi. Esistono ad esempio delle sorte di “ombrelli” che si infilano, dall’interno della barca, nella falla, e che poi vengono aperti per tappare l’apertura nello scafo .

Non ho mai usato tecniche del genere e quindi non so se funzionano davvero, ma non ci farei troppo affidamento.

CONI IN LEGNO Invece ho già avuto modo di dire che i coni in legno tenero, di varie misure, sono molto utili. Li ho usati spesso, quando lavoravo alle toilette o ad altro, anche per tappare rapidamente degli scarichi a mare, senza dover mettere in secco la barca.

IL BANALE STUCCO DEL VETRAIO Lo stucco da vetraio, plastico, impermeabile e resistente all’acqua, è un antico metodo per tappare provvisoriamente, dall’esterno, delle vie d’acqua, soprattutto crepe o fessure. Costa poco e si trova in tutti i paesi del mondo; abbiatene sempre, quindi, qualche chilo a bordo.

Comunque, tenete presente che, praticamente, qualsiasi polvere, mescolata con qualsiasi grasso, fornisce uno stucco utilizzabile per riparazioni di emergenza.

Come ho già raccontato altre volte, il mio amico George (un inglese che aveva vissuto per molto tempo in Australia) aveva imparato che la mistura migliore è costituita da polvere di cemento e grasso di pecora.

Il cemento, una volta raggiunto dall’acqua, indurisce, aderendo abbastanza tenacemente allo scafo, specialmente se lo stucco è stato infilato dentro la fessura o la falla.

In Mar Rosso, ho visto George tappare dall’esterno con questo materiale parecchi squarci larghi anche un paio di centimetri, che si erano aperti nella sua barca di acciaio rimasta due settimane incagliata nel reef. La povera imbarcazione era stata sollevata ritmicamente dal moto incessante delle onde che la facevano poi ricadere pesantemente su quegli scogli “puntuti” che colpivano lo scafo con la forza di un maglio…

Il “Quo Vadis” di George ha poi navigato felicemente e senza imbarcare una goccia d’acqua, per parecchi mesi, fino a Cipro, grazie a queste solide toppe provvisorie.

LA BUFFA COMBINAZIONE Quindi il cemento a presa rapida, impastato con il grasso o da solo, può risolvere molte situazioni difficili ed &egrave utile anche per molte altre cose; è bene averne parecchi chili a bordo di una barca destinata a lunghe navigazioni in mari lontani.

LA MIRACOLOSA RESINA EPOSSIDICA Esiste una resina epossidica che fa presa anche sott’acqua, in pochi minuti; costa molto cara, ma è veramente utile, soprattutto per le infiltrazioni intorno all’asse dell’elica o del timone, ed in molti casi di emergenza.

Può essere usata, per esempio, per incollare dall’esterno un pezzo di tela impermeabile su un’ampia crepatura o spaccatura dello scafo.

IL SILICONE NON È SOLO PER DIVE C’è anche un silicone capace di attaccarsi su superfici bagnate; non è forte ed efficace come la resina epossidica, ma può essere utile in molti casi e costa di meno.

LA PREZIOSA SCORTA DI TELA E STRACCI Tela, fogli di plastica, cuscini, stracci, tavolette, possono essere incastrati anche dall’interno nelle falle per arrestare o almeno rallentare l’afflusso dell’acqua. Naturalmente – se è possibile – è sempre meglio sistemarli dall’esterno, perch&eacute così la pressione dell’acqua contribuisce a tenerli aderenti e possono essere sigillati con grassi, stucchi, cemento, resine o siliconi.

SBANDARE LA BARCA Prima di incominciare a lavorare su di una falla, si deve innanzitutto provare a farla uscire dall’acqua, sbandando la barca. La si può mettere alla cappa oppure si possono appendere grossi pesi al boma, sporto in fuori.

L’AFFONDAMENTO PUÒ ACCADERE Nonostante tutte le possibili precauzioni, la preparazione coscienziosa e quant’altro, qualsiasi marinaio può ritrovarsi, un giorno, su di una zattera di salvataggio…

MANUALE DI SOPRAVVIVENZA Il miglior manuale di sopravvivenza in mare, che sia mai stato scritto, è, a mio avviso, “Naufrago Volontario” di Alain Bombard. Non solo perch&eacute contiene molte informazioni e notizie utili, ma soprattutto perch&eacute mette bene in evidenza e dimostra in maniera inconfutabile che su di una zattera si può sopravvivere, a tempo indeterminato, traendo dal mare stesso i mezzi di sussistenza.

CIBO E ACQUA DOLCE DAL MARE Questo fatto era generalmente misconosciuto, prima che Alain scrivesse il suo libro, anche tra gli uomini di mare, pur se era ampiamente dimostrato dai tanti naufraghi sopravvissuti per mesi su mezzi di salvataggio o relitti. Per renderlo di pubblico dominio, quest’uomo coraggioso ha compiuto la strepitosa impresa di attraversare l’Atlantico su un canotto pneumatico, senza usare i viveri e l’acqua che aveva, sigillati, a bordo.

LA PAURA UCCIDE PIÙ DEL MARE L’altro prezioso contributo che Bombard ha donato alla causa della salvaguardia delle vite in mare, è stato il farci prendere coscienza che i naufraghi muoiono molto di più per lo choc e lo scoraggiamento, che non per effettive cause concrete, quali l’affogamento o la fame e la sete.

Ecco quindi un altro ottimo motivo per cercare di essere sempre, anche psicologicamente, preparati all’idea del naufragio per non soccombere allo spavento che evidentemente uccide molto più del mare.

E SE NAUFRAGASSI? Tutti i marinai possono ritrovarsi, all’improvviso, a dover interpretare la parte del naufrago. Essere preparati a questa eventualità può costituire una differenza di vitale importanza.

In una precedente puntata ho già incominciato a descrivere le cause più frequenti dei naufragi e qualche accorgimento per evitarli e per affrontarli. Questa volta richiamerò l’attenzione dei lettori sulla prudente gestione dei periodi di riposo a bordo.

RIPOSARSI SPESSO La stanchezza dell’equipaggio può essere la causa determinante di gravi incidenti e molti principianti non se ne rendono conto; infatti arrivano, spesso e volentieri, ai limiti delle loro risorse. I marinai esperti, invece, amministrano sempre con molta cautela le proprie energie, riposando o dormendo tutte le volte che possono, ben sapendo che il brutto tempo o l’emergenza arrivano quando meno te l’aspetti e se ti colgono sfinito, saranno molto più pericolosi.

VIA LATTEA DI SPAGHETTI Ho già raccontato della lussuosa barca italiana, naufragata alle Canarie costellando il mare di una lunga scia di spaghetti alla deriva.

Sembra che l’eccitazione del navigare per la prima volta in oceano, abbia fatto scordare all’equipaggio la necessità di dormire sufficientemente; così hanno festeggiato tutti insieme allegramente, soprattutto di notte, durante una splendida traversata da Gibilterra.

Arrivati in prossimità delle Canarie, non c’era pi&ugrave nessuno capace di tenere gli occhi aperti, e quindi sono crollati tutti addormentati, lasciando la barca affidata esclusivamente al pilota automatico. Dopo qualche ora sono stati bruscamente risvegliati dall’urto contro i neri scogli lavici di Lanzarote, acuminati e minacciosi come gli artigli di un drago.

Per fortuna nessuno si è fatto veramente male; ma la barca è andata totalmente distrutta ed ha avuto lentamente un'”emorragia” di spaghetti che ha macchiato per miglia e miglia il blu intenso del mare, per qualche giorno dopo l’incidente.

GLI SCIACALLI Tra l’altro, questa vistosa traccia ha costituito una chiara indicazione e un irresistibile invito per molti “sciacalli” dei naufragi, che sono subito accorsi a “ripulire” la povera imbarcazione, prima che l’azione delle onde e l’asperità degli scogli la smembrassero completamente dissolvendola, poi, nell’immensità dell’oceano.

COLPA DELLO SKIPPER Naturalmente la responsabilità è sempre dello skipper che deve saper distribuire saggiamente i turni di guardia, rischiando anche di rendersi impopolare, riposandosi più spesso degli altri. Ma se la situazione meteorologica si deteriora o se c’è bisogno di un intervento di emergenza, sar&agrave lo skipper a dovervi far fronte e, se è stanco, sono guai per tutti.

IL MAL DI MARE Soprattutto quando arriva il brutto tempo nessuno andrebbe mai a dormire. Stare dentro, con la barca che salta sulle onde come un cavallo impazzito, non è affatto piacevole, specialmente per chi soffre il mal di mare; ma bisogna riuscirci, facendo ricorso se necessario, tempestivamente e senza vergognarsene, ai farmaci (vi ricordo lo Stugeron, oltre ai cerotti da applicare dietro le orecchie, a base di scopolamina e la Xamamina e simili, a base di antistaminici).

I FARMACI Da quando sono tornato in Italia, mi sono ritrovato spesso a fare lo skipper con equipaggi appena conosciuti. È davvero sconcertante constatare come quasi tutti pretendano di non soffrire il mal di mare (anche se io confesso sempre che a volte ne soffro) e quasi tutti si rifiutano di prendere qualche cosa per prevenirlo; per ridursi poi a vomitare l’anima dopo qualche ora di navigazione dura, creando mille problemi per s&eacute e per gli altri. Capisco che è seccante dover prendere farmaci, con i loro sgradevoli effetti collaterali; ma rischiare di avere il mal di mare è senz’altro peggio.

IL MANUALE DI BOMBARD Ho già detto negli articoli precedenti che, secondo me, il miglior manuale di sopravvivenza in mare, è “Naufrago Volontario” di Alain Bombard, un giovane medico francese che decise, negli anni cinquanta, di dedicarsi alla salvaguardia delle vite in mare, dopo aver assistito alla “ingiustificata” morte di quarantatr&eacute pescatori in un naufragio contro la diga di Carnot a Boulogne-sur-Mer.

Alain ha quindi prima di tutto accertato e ampiamente dimostrato che su una zattera si può sopravvivere a lungo, traendo esclusivamente dal mare i mezzi di sussistenza; e poi si è conquistato il grande merito di aver efficacemente diffuso questa consapevolezza sia con la sua coraggiosa traversata dell’Atlantico, su di un canotto pneumatico, che con il suo libro. Prima di lui, infatti, anche molti marinai ritenevano impossibile reggere più di qualche giorno in mare, senza viveri ed acqua, pur se era evidente il contrario, visto che tanti naufraghi avevano resistito per mesi su mezzi di salvataggio.

L’ATLANTICO IN CANOTTO Per richiamare quindi l’attenzione del maggior numero di persone possibile, quest’uomo coraggioso ha compiuto un’impresa straordinaria; ha attraversato l’Atlantico da solo, su un canotto pneumatico, senza usare il cibo e l’acqua che aveva, sigillati, a bordo. L’eco della sua spedizione solitaria è stata molto ampia e oggi, anche sulle scialuppe di salvataggio delle navi, sono normalmente adottati molti strumenti e accorgimenti, semplici ed efficaci, da lui sperimentati e consigliati, primo fra tutti la piccola pressa per estrarre liquido dai pesci, di cui parlerò più avanti.

Chissà quante persone sono sopravvissute seguendo le indicazioni di questo medico generoso, che conclude il suo libro affermando che si sarebbe sentito ricompensato per i suoi sforzi, anche se un solo marinaio si fosse salvato grazie al suo impegno e al suo lavoro.

IL PERICOLO DELLO CHOC L’altro prezioso contributo che Bombard ha dato alla salvaguardia delle vite in mare è stato il farci sapere, mostrando prove indiscutibili e narrandoci le sue esperienze dirette, che i naufraghi muoiono molto di più per lo choc e lo scoraggiamento che non per effettive cause concrete, quali l’affogamento o la fame e la sete.

I pescatori morti sotto gli occhi del giovane Alain, a Boulogne- sur-Mer, erano rimasti in acqua solo per pochi minuti. I mezzi di salvataggio del porto erano a poche decine di metri dal luogo dell’incidente, e la pattuglia di guardia è intervenuta immediatamente ed è riuscita a recuperare tutti i naufraghi con grande rapidità.

TERRIBILE SPETTACOLO “Non dimenticherò mai quello spettacolo – ci racconta Bombard – quarantatré uomini ammucchiati gli uni sugli altri, in atteggiamenti di burattini slogati, a piedi nudi e tutti provvisti della cintura di salvataggio. Nonostante i nostri sforzi, nessuno di loro poté essere rianimato. Bilancio di un attimo di distrazione: quarantatré morti, settantotto orfani…”.

LA PAURA ASSASSINA Evidentemente erano stati stroncati tutti dal terrore per essersi ritrovati, all’improvviso, nell’acqua buia.

Ecco quindi un altro buon motivo per cercare di essere sempre, anche psicologicamente, “preparati” all’idea del naufragio, per non soccombere allo spavento che, evidentemente, uccide più del mare.

ACCORGIMENTI PRATICI Stabilito, quindi, che anche l’atteggiamento psicologico è di fondamentale importanza per la sopravvivenza e merita particolare attenzione, cominciamo a esaminare ora gli aspetti più pratici iniziando dai meno conosciuti.

Sempre da Alain Bombard abbiamo appreso che bere un poco di acqua di mare, sin dai primi giorni dopo il naufragio, può aiutare molto a evitare la disidratazione.

BERE L’ACQUA DEL MARE Per molti marinai questo è uno dei più terribili e antichi tabù. In effetti se un naufrago semidisidratato, dopo aver passato qualche giorno in una zattera, sotto un sole cocente e senza aver mai bevuto nulla, manda giù anche un solo sorso di acqua salata, morirà rapidamente per nefrite e questo spiega la ragione del tabù, tramandato da tante generazioni di marinai. Ma Alain ci ha dimostrato, sperimentandolo lui stesso, che bere fino a tre o quattro bicchieri di acqua di mare al giorno, non solo non è pericoloso ma è un ottimo e importante ausilio alla sopravvivenza dei naufraghi. Bisogna però incominciare a berla da subito e non attendere che i reni e l’organismo siano sovraccarichi e debilitati e non siano, quindi, più in grado di eliminare il sale in eccesso. Comunque si deve riuscire a bere al più presto anche altri liquidi non salati, ricavandoli dall’acqua piovana, dai pesci e dalla distillazione dell’acqua di mare, come vedremo tra poco. Infatti se si beve solo acqua di mare per più di cinque giorni consecutivi, il rischio di morte per nefrite diviene nuovamente molto alto.

È UNA PURGA In ogni modo, per la mia esperienza diretta e per l’esperienza di diversi altri che ho conosciuto, vi avviso che l’acqua di mare può avere un forte effetto lassativo e, quindi, potrebbe non essere consigliabile per tutti. Ma in genere, se si insiste a berla per qualche giorno, viene alla fine ben accettata dall’organismo. Forse sarebbe quindi saggio, per i marinai, abituarsi a berne un pò ogni giorno. Molti lo fanno e la trovano anche una benefica e salutare abitudine.

SUCCO DI PESCE I pesci contengono liquidi non salati e quindi se “spremuti” danno un “succo” potabile che può soddisfare efficacemente il fabbisogno idrico di un naufrago.

Anche questa è un’altra preziosa “rivelazione” del nostro Bombard che ci ha insegnato che una piccola pressa (o, al limite, anche un semplice schiacciapatate) è un efficace strumento per estrarre il liquido dai pesci (vedi figure e foto). Sempre lui ci avvisa però che i pesci cartilaginosi (pescecani e razze) contengono dei proteidi pericolosi (ureidi e basi puriniche) e quindi non devono essere usati per ricavarne liquidi da bere.

L’ACQUA PIOVANA Spesso in mare, specialmente ai tropici, piove forte e quindi la raccolta dell’acqua piovana, anche con un semplice telo impermeabile, è in genere un’ottima e facile fonte di acqua potabile. Un telo sufficientemente grande per potersi riparare dal sole e dalla pioggia è inoltre un aiuto molto importante per la sopravvivenza dei naufraghi e, infatti, tutte le zattere autogonfianti sono dotate di una copertura che ha anche delle grondaiette per raccogliere la pioggia.

DISTILLARE L’ACQUA DI MARE Esistono distillatori di plastica, gonfiabili, che sfruttano il calore del sole e possono essere facilmente ripiegati e stivati insieme ai bidoni di acqua, viveri e attrezzature di emergenza. Comunque è sempre possibile costruirne uno (vedi disegno) purch&eacute si disponga di un telo di plastica trasparente, che deve però essere resistente ai raggi ultravioletti (si trovano dai fornitori di prodotti agricoli, perch&eacute si usano per costruire le serre).

ASPETTARE GLI AIUTI? Le zattere autogonfiabili sono fatte per restare in balia del vento e della corrente in attesa dei soccorsi e non sono, quindi, per nulla adatte alla navigazione; hanno infatti la forma più o meno quadrata, il fondo floscio e delle tasche sotto il fondo che si riempiono di acqua per stabilizzare il natante.

In effetti, con lo sviluppo dell’elettronica, oggi si possono acquistare con cifre relativamente modeste radio piccole e impermeabili, che trasmettono automaticamente segnali di richiesta di soccorso che possono raggiungere, oltre che le stazioni a terra, anche aerei, navi e satelliti artificiali; quindi, di solito, si può contare su un aiuto rapido ed efficace; ma chi gira per il mondo si può trovare in zone poco frequentate, dove i sistemi di rilevamento e soprattutto l’organizzazione dei salvataggi sono ancora inesistenti.

NAUFRAGHI NAVIGATORI Un naufrago che sa come continuare a navigare, anche su una zattera o su un canotto, ha comunque molte più probabilità di salvarsi, raggiungendo con i suoi mezzi la terra.

Anche le zattere autogonfianti possono essere “costrette” a navigare, facendole trainare da aquiloni; ma certamente è molto meglio un dinghy, anche pneumatico, di forma e fondo più adatti e con i remi che possono essere usati come derive e timoni (vedi figura). Un foglio di compensato lungo più di un metro e largo una cinquantina di centimetri costituirà comunque una deriva molto più efficace e consentirà, se ben utilizzato, di rimontare il vento.

AQUILONI VELE Gli aquiloni sono stati usati come vele anche per stabilire dei record mondiali di velocità (vedi la foto che mostra il catamarano “Jacob’s Ladder”, che ha superato i 25 nodi, trainato da aquiloni tipo Flexifoil che possono essere acquistati nei negozi specializzati che ormai si trovano in molte città del mondo).

Per un naufrago, su una zattera o un canotto, l’uso degli aquiloni presenta molti vantaggi rispetto agli altri sistemi per navigare che sfruttano il vento. Ripiegati, sono di minimo ingombro e possono essere facilmente stivati insieme alle attrezzature di emergenza, si recuperano rapidamente se il tempo peggiora e, poich&eacute non richiedono l’albero per funzionare, una volta “ammainati” non oppongono nessuna resistenza al vento, che potrebbe destabilizzare e capovolgere il mezzo di salvataggio. Possono essere “pilotati” per orientare la loro trazione in un settore di circa 120 gradi (vedi figura). Questo significa che possono condurre qualsiasi zattera in un relativamente ampio ventaglio di direzioni (e questo nessuna vela può farlo) e naturalmente consentono, a un’imbarcazione dotata di deriva, di rimontare il vento.

COME FARLI VOLARE Certo occorre un minimo di pratica per imparare a usarli correttamente; ma in alto mare è, in genere, molto più facile far decollare e pilotare gli aquiloni perch&eacute , in assenza di dislivelli, il vento è molto più regolare e meno turbolento; e poi è cos&igrave bello e divertente costruire e far volare degli aquiloni in barca.

Io ne avevo sempre diversi a bordo, sia per poterli utilizzare come vele di emergenza che per il piacere di vederli ondeggiare fra le nuvole. A volte li pilotavo in entusiasmanti acrobazie e altre volte, più semplicemente, facevo loro seguire docilmente la mia barchetta, perch&eacute arricchissero lo spettacolo offertomi dal mare e dal cielo con la bellezza dei loro colori e con le loro danze fra le nuvole.

UN DRAGO BUONO Ne avevo costruito anche uno con una coda lunghissima e del tipo instabile, che quindi oscillava in ampi ondeggiamenti che imprimevano lo stesso movimento alla lunga coda.

Quando lo facevo volare, risalendo il vento in tranquille boline, questo gigantesco serpentone, ondulante e dai colori smaglianti, seguiva dappresso la mia barca, quasi fosse stato un buon drago addomesticato. Articolo di Silvio Dell’Accio