Martinica è una delle isole più belle dei Caraibi ma porta il ricordo di un’immane tragedia: quello dell’eruzione del Mont Pelée, che l’8 maggio del 1902 cancellò dalla faccia della Terra un’intera città con i suoi 30.000 abitanti. Ne restano oggi solo le memorie conservate in un museo, mentre tutt’intorno fiorisce una cornice di mare e di spiagge meta di un incessante turismo internazionale.

C’è la storia, giovane ma ricca di quel fascino coloniale che ne aveva fatto la sua perla d’oltre Atlantico. C’è la natura, varia, esuberante: a volte morbida e accogliente  nell’abbraccio di una candida spiaggia bordata da un mare verde smeraldo, a volte viva e lussureggiante, quasi soffocante nelle foreste pluviali dell’interno, dove, dopo il classico acquazzone tropicale, sembra quasi di poter sentire il brusìo delle piante che crescono.

Ci sono le grandi piantagioni di canna da zucchero, ricchezza primaria del paese prima che l’evoluzione commerciale cambiasse le carte in tavola, e ci sono le distillerie del rum, uno dei preziosi frutti di quella canna, ma non mancano piantagioni di tabacco e caffè, spezie e frutta esotica di tutti i tipi.

Colombo, che vi sbarcò nel 1502 durante il suo quarto viaggio (ma dove mai non è stato questo ragazzo!) la battezzò Martinica in onore di S. Martino e la definì “il più bel posto del mondo”. Ipse dixit, ma anche se il “suo mondo” era al tempo alquanto limitato, non gli si può dar torto: non a caso, in tempi più moderni, la Martinica è diventata “Il fiore delle Antille”.

Martinica

Poi c’è il colore locale, un divertente mix di Caraibi tinti d’Europa, perché sarà bene non dimenticare che siamo sì dall’altra parte dell’Atlantico ma è come se fossimo sulla Costa Azzurra: le Territoires d’Outre Mére sono Francia a tutti gli effetti e qui – per capirci – si entra con la carta d’identità e la moneta corrente è l’Euro…anche se Parigi dista 6.658 chilometri. E non per niente la capitale dell’isola si chiama Fort-de-France.

Poca meraviglia, quindi, nel passare dai profumi di baguette e croissant appena sfornati a quelli più intensi ed esotici delle spezie in bella vista sui banchi di un mercatino. Ci sono pallidi volti europei appena sfumati di abbronzatura e gli accoglienti  sorrisi a trentadue denti delle creole, che nascondono però un passato inquietante: qui i Francesi eliminarono o deportarono l’originaria popolazione caribica, importando poi molti schiavi africani, finché nel 1848 la schiavitù fu abolita.

Poi, come in tante altre isole, sono arrivati anche i cinesi e gli indiani, signori del commercio spicciolo, e oggi il tutto forma il mix eterogeneo di una popolazione che convive felicemente in un clima altrettanto felice: la temperatura media è di 26 gradi e, quando il caldo si fa eccessivo, c’è sempre la brezza degli Alisei a mitigare l’atmosfera.

MartinicaUn mare da vivere

Ma la Martinica è soprattutto un’isola, lunga 80 chilometri e larga 30, con una superficie di 1.128 kmq e un picco, quello del Mont Pelée, alto 1.397 metri, che sorge nella sua parte più settentrionale. Tutt’intorno, uno dei mari più celebrati del mondo, da vivere sotto la superficie fra spugne e coralli, ma anche in gradevole navigazione: non tanto in crociera sulle grandi navi – cosa che peraltro a noi poco si addice – ma soprattutto in barca a vela. Qui infatti il charter è diffusissimo.

Imperano i grandi catamarani che nelle baie riparate dagli alisei non hanno problemi di ancoraggio e non mancano tradizionali regate come quella dei gommier, imbarcazioni di antica stirpe con lo scafo ricavato scavando un tronco d’albero (il gommier è per l’appunto un albero), e quella delle yole: entrambe sugli 8-10 metri, a vela singola, con una serie di pennoni che fuoriescono lateralmente dallo scafo per consentire all’equipaggio di bilanciare lo sbandamento.

Gli equipaggi sono agguerritissimi e non mancano gli sponsor, poiché queste regate sono seguitissime da tutta l’isola. Per chi vuole invece navigare con più tranquillità lungo le bellezze della Martinica, meglio scegliere le coste di Nord-Ovest, più riparate da vento e mare, anche se avendo la necessaria esperienza ci si può avventurare verso mete più impegnative, spinti dal soffio costante degli Alisei.

distilleria di Rum in MartinicaLe Piccole Antille sono tante: Saint Lucia, Barbados e Dominica non sono lontane. Ma non mancano isolotti minori a ridosso dei quali potersi mettere alla fonda, magari facendo attenzione ai possibili banchi di corallo.

MartinicaIl tutto senza dimenticare di dare un’occhiata sott’acqua, perché i Caraibi non avranno forse la spettacolare tavolozza di colori del Mar Rosso ma, fra spugne, coralli e una moltitudine di pesci, possono sempre offrire belle emozioni.

Martinica
Il mare della Martinica è particolarmente ricco di spugne e coralli, ma la baia di Saint-Pierre offre agli appassionati di subacquea anche il triste ma affascinante spettacolo dei resti delle navi affondate durante l’eruzione del Mont Pelée.

Mont Pelée

La Martinica, l’isola dei fiori, porta però anche il ricordo di una tragedia, ormai lontana nel tempo: la più grave mai accaduta ai Caraibi. La data è difficile da dimenticare: 8 maggio 1902, il giorno in cui la sommità del Mont Pelée esplose rovesciando sulla città di Saint-Pierre una valanga di lava e cenere, ma soprattutto una nuvola ardente che oscurò il cielo e che in pochi secondi bruciò ogni cosa al suo passaggio, cancellando la vita dei 30.000 abitanti della città. Tutti morti, arsi vivi in pochi secondi. In realtà, tutti tranne due, ma di questo riparleremo più in dettaglio tra qualche riga.

Mont PeléeUn “pelato” bollente

Il Mont Pelée – pleonastico sottolinearlo – è un vulcano. Per chi non conosce il francese, ricordiamo che il suo nome – traducibile in “monte pelato” – è dovuto alla mancanza di vegetazione che ne caratterizza la sommità, al contrario delle pendici che sono ricoperte invece da una densa vegetazione e da varie forre che scendono fino a congiungersi direttamente con la periferia di Saint-Pierre.

Prima della storica eruzione se ne ricordavano soltanto due alquanto deboli, avvenute nel 1792 e nel 1851, tanto che nella vita quotidiana fin de siècle il monte era più che altro la meta di piacevoli gite domenicali. Nei pressi della vetta, all’interno di un’antica caldera, si era anche formato un piccolo lago le cui sponde si prestavano a gradevoli pic-nic.

A quell’epoca, Martinica era un’isola ricca e fiorente, apprezzatissima colonia francese in grado di esportare zucchero, spezie, tabacco e, soprattutto, un ottimo rum. Nei suoi porti attraccavano i grandi bastimenti provenienti dal vecchio continente, un po’ a vela e un po’ a vapore, costruiti in legno o in acciaio, spesso anche battenti la nostra bandiera; navi che per lo più sostavano in rada in attesa di caricare o scaricare le proprie merci e che, per lo più, si ancoravano nella baia di Saint-Pierre, il miglior ancoraggio dell’isola, una baia splendida, accogliente e ben riparata dagli Alisei.

Saint-Pierre, al tempo capitale commerciale dell’isola, era una delle città più belle delle Antille: ricca, allegra, cosmopolita e con una sua aristocrazia, ospitava un grande teatro, uno straordinario giardino botanico e disponeva di bordelli apprezzatissimi dai marinai che arrivavano da oltre Atlantico. È in questa atmosfera felice e spensierata che si verificò l’immane tragedia che vale la pena di rivivere in cronaca.

Era una montagna verde e accogliente ma nelle sue viscere covava la distruzione.
E alle 7.50 dell’8 maggio 1902 il Mont Pelée ne dette ampia dimostrazione. In pochi secondi, un’immensa nuvola di cenere ardente, lava e lapilli, si rovesciò lungo le sue pendici distruggendo tutto ciò che trovava sul suo cammino.

Cronaca di una tragedia

Abituati a vivere ai piedi di un vulcano (“Il Monte Pelée non rappresenta un pericolo per gli abitanti di Saint-Pierre, non più di quanto lo sia il Vesuvio per i napoletani”, aveva scritto un giornale locale), gli abitanti non dettero peso ai primi inquietanti segnali di una situazione anomala, anche perché, concentrati sulle elezioni comunali in pieno svolgimento, avevano altri pensieri per la testa. Ma le occasionali fumate che fuoriuscivano dalla bocca del cratere, la discesa a valle di insetti, ratti e serpenti che fuggivano dalle pendici della montagna e i primi vapori sulfurei che si diffondevano nell’aria annerendo l’argenteria avrebbero dovuto essere avvertimenti da tenere in considerazione.

Eruzione Mont Peleé

Siamo nel 1902. Il 22 aprile si rompe misteriosamente il cavo telegrafico Fort de France-Guadalupa e si avverte una leggera scossa sismica. Fra il 24 e il 25 si alternano grandi fumate, esplosioni e una leggera pioggia di cenere. Il 26 tutto si normalizza e Saint-Pierre torna nella sua indifferenza, salvo la curiosità di alcuni abitanti che decidono di salire al cratere per osservarlo da vicino.

I fenomeni si ripetono più evidenti il 28, quando, in un’atmosfera sempre più tetra, entra in piena la Rivière Blanche, il fiume che dalle pendici del monte scende a lambire la periferia della città. La gente comincia a mostrare una grave inquietudine. Ancor più il 1° maggio, quando la caduta della cenere si fa più evidente e la colonna di fumo che si alza dal Mont Pelée crea ombre preoccupanti.

Il 2 maggio la cenere ricopre ormai con un sottile velo le strade della città, il cielo è oscurato; la gente, smarrita, guarda continuamente il vulcano con aria preoccupata e si chiede cosa potrebbe accadere. Il giorno dopo si tronca anche il cavo telegrafico che collega Saint-Pierre alla Dominica.

La notte del 4 maggio le esplosioni si fanno più violente, la Rivière Blanche è diventata un torrente furioso e minaccioso, la cenere rende difficoltosa la respirazione. La preoccupazione della gente diventa all’improvviso paura, reazione accentuata dal senso di impotenza e dal non sapere cosa fare.

Il 5 maggio, a mezzogiorno, un forte rombo precede una prima eruzione: la parete ovest del Mont Pelée collassa. Dalla spaccatura si riversa nella valle del fiume una massa fangosa che trascina rocce, alberi e qualsiasi altra cosa incontri sul suo cammino, inclusa la distilleria Guerin con tutti i suoi operai: sono le prime 25 vittime del vulcano.

Il 6 maggio tutti i fiumi del versante nord occidentale dell’isola sono in piena, le esplosioni si susseguono con boati assordanti, l’aria è diventata irrespirabile a causa della cenere. La gente incomincia a fuggire lasciando le case alla mercé degli sciacalli ma le autorità, incredibilmente concentrate sulle loro questioni politiche, continuano ad assicurare che il fenomeno è passeggero e che non c’è nulla di serio da temere.

distilleria di rum
Le prime 25 vittime dell’eruzione del Mont Pelée furono gli operai di una distilleria di rum che si trovava lungo le pendici del vulcano. Tutt’oggi il rum, frutto della lavorazione della canna da zucchero, è uno dei prodotti di maggio prestigio dell’isola.
Foto di H.Salomon.

Le cose tuttavia peggiorano. La mattina del 7 il vulcano entra in una fase parossistica di violente esplosioni di lava e lapilli. Ai terrificanti boati segue una pioggia di cenere che toglie il respiro. Saint-Pierre è totalmente isolata, la gente entra in panico e a poco serve che il governatore monsieur Mouttet e sua moglie si presentino coraggiosamente in città per calmare la folla sempre più allarmata. Alla sera sale la preoccupazione anche fra le circa quaranta navi alla fonda nella baia.

Tra loro ci sono alcune posacavi chiamate per le riparazioni, ma per lo più si tratta di mercantili da carico. Tra questi, diverse navi italiane: l’Orsolina, la Teresa Lo Vico, la Maria di Pompei (quasi premonitrice la sua presenza), la Sacro Cuore e altre. La preoccupazione è forte, ma ci sono problemi legati al carico/scarico delle merci e soprattutto ai regolamenti portuali, oltre all’orgoglio di non essere i primi a fuggire.

Una storia personale può rendere meglio la situazione. È quella del capitano Ferrara, comandante dell’Orsolina: si tratta di un napoletano che, nato ai piedi del Vesuvio, ha ben chiaro quale sia il pericolo. La sua nave è già coperta di cenere e tutto il mare intorno è un tappeto di detriti. A terra gli alberi crollano sotto il peso della cenere mentre la gente atterrita assedia la cattedrale e prega nella speranza di un miracolo. Ferrara scende e, in un’insopportabile nuvola di cenere e calore, corre in dogana: vuole indietro le sue carte per partire.

L’ostilità del responsabile dell’ufficio è tuttavia assoluta: “Non potete partire prima di aver terminato il carico. Se lo farete, vi imporremo severe sanzioni”. Ferrara lo guarda fisso negli occhi e gli grida in faccia: “E chi mi imporrà le sanzioni? Voi? Voi domani sarete tutti morti!”. La sera stessa,  Ferrara ordina di salpare l’ancora, mentre una pioggia torrenziale cade sulla città creando un mostruoso miscuglio di fango e cenere.

Foto di J.B. Barret

L’inizio della fine

L’8 mattina la città appare sotto una nuova strana luce, in quanto la pioggia ha lavato la cenere. In rada entra una nave a vapore proveniente da Sante Lucie, mentre al molo il Diamant imbarca centinaia di persone che cercano di lasciare Saint-Pierre.

Alle 07,50 le campane della cattedrale suonano, si celebra l’Ascensione (in Italia – sembra destino – si celebra anche la Madonna di Pompei). Tutto sembra tornato tranquillo, tutto sembra passato…ma poi è questione di un attimo. Con una terrificante esplosione, il vulcano letteralmente si apre rovesciando sulle sue pendici un immenso fiume di lava, mentre una nuvola ardente scende in pochi secondi a coprire la città polverizzando ogni cosa.

Il cielo è ormai totalmente oscurato e in poche decine di secondi una nuvola di ardente lava cancella dalla faccia della Terra 30.631 persone. Scompare la “Parigi dei Caraibi”, nasce la “Pompei delle Antille”. Passano poco più di dieci minuti e di questa spaventosa catastrofe resta solo uno strato ardente di lava fumante e un desolante silenzio rotto da un’unica voce: urla di dolore che provengono dalla prigione della città dove l’unico carcerato,  Auguste Cyparis, è straziato dalle ustioni ma è ancora vivo.  E con lui è vivo un calzolaio, Leon Compere-Leandre, rifugiatosi in un magazzino. Sono gli unici due superstiti in una città di cui non resta più nulla. Cyparis, al quale Giovanni Pascoli avrebbe dedicato persino un’ode, viene ritrovato tre giorni dopo l’eruzione. Sarebbe presto diventato oggetto di un interesse morboso, tanto da finire come attrazione sotto il tendone del circo Barnum.

E in mare? Le cose non vanno molto meglio. La nuvola ardente investe con una furia annientatrice molte navi alla fonda bruciando alberi, vele, pennoni, coperte… e uomini. In pochi minuti altre navi accusano grosse falle e affondano. Il Diamant, già carico della folla che cercava di portare in salvo, forza le macchine cercando di vincere la spinta dell’onda di pressione, ma le sue caldaie esplodono e affonda in un lampo. In pochi minuti il mare è diventato un tappeto di rottami e di cadaveri. In un’oscurità quasi totale si odono solo le grida di dolore dei pochi marinai ancora vivi ma orrendamente ustionati.

Il capitano Freeman, comandante del Roddam, ricorda: “Dopo un attimo di stupore nell’osservare lo spettacolo dell’eruzione mi resi del conto del pericolo. Fu una questione di neanche due minuti e un vento ardente abbracciò la nave uccidendo all’istante tutti gli uomini sul ponte, mentre il mare sembrava entrato in burrasca e dal cielo piovevano lapilli grossi come uova di piccione. Mi ero rifugiato nella mia cabina, ma la cenere penetrava dappertutto e nel respirare la sentivi entrare nei polmoni e bruciare come fosse fuoco. Dell’equipaggio erano rimasti, anche se malamente ustionati, solo cinque uomini, e con loro nell’oscurità totale cercammo di disancorare: il mare intorno ribolliva.

J.B. Barret

Sentivamo le urla strazianti dei marinai feriti che stavano affogando e che non potevamo salvare: sembrava l’inferno dantesco. Ci volle più di un’ora e mezza per mettere in moto e portare al largo quel relitto agonizzante che era la mia nave, ma solo dopo cinque ore di stentata navigazione la nuvola di cenere iniziò a diradarsi e a lasciar filtrare un po’ di luce. Quando riuscimmo a raggiungere Saint-Lucie nessuno era in grado di riconoscere la mia nave; il mio stesso agente mi riconobbe solo dalla voce”. Dal Roddam furono raccolte 120 tonnellate di cenere, una misura assolutamente accurata perché non fu permesso di gettarla in porto e, per riversarla al largo, furono necessari sei viaggi di una chiatta che portava 20 tonnellate.

J.B. Barret

La catastrofe del Mont Pelée lasciava una città rasa al suolo, più di trentamila morti, due soli superstiti e un cimitero di navi i cui resti sommersi – ancor oggi visitabili dai sub – sarebbero diventati oggetto di un documentario di Jacques Cousteau.  Nel tempo la città è rinata, non più splendente come una volta, non più al centro di grandi e preziosi commerci, ma con l’orgoglio di essere risorta dopo essere stata totalmente distrutta da quel maledetto, affascinante, imprevedibile “pelato” che ancor oggi la domina dall’alto del suo cratere. Tutto ciò che resta di quell’ormai lontano 8 maggio 1902 è custodito in un museo che vale la pena di visitare, se non altro per ricordarci quanto piccoli siamo di fronte alla natura.

Vulcani di casa nostra

Se l’eruzione del Mont Pelée è rimasta nella storia per la sua tragicità, non bisogna dimenticare che gran parte delle isole dei Caraibi sono formate da vulcani, molti dei quali per altro non ancora del tutto spenti. Per maggior precisione ricordiamo che l’arco delle Piccole Antille, dalle isole Vergini a Nord a quelle al largo del Venezuela a Sud, comprende 17 vulcani attivi. Una situazione preoccupante, verrebbe da dire, ma quella lungo le nostre coste è poi così tanto diversa?

Se l’Adriatico può sentirsi poco toccato dal problema, il Tirrenico è in una situazione del tutto differente. Infatti, se sui suoi fondali riposano le bocche di una quantità di vulcani per lo più spenti, risalenti a circa 800.000 anni fa e nati dallo scontro fra la placca africana e quella europea, altri sono ancora emersi e di tanto in tanto fanno sentire la loro voce: ancor più lo Stromboli, in perenne attività da oltre duemila anni, come del resto ha dimostrato il 3 luglio dello scorso anno; o come il Vesuvio, sopito ma non spento, e la zona del cosiddetto Distretto Vulcanico Flegreo, comprendente le isole di Ischia e di Procida.

Lo stesso Etna, pur essendo stato nominato World Heritage Site dell’UNESCO nel 2013 e aver reso fertili le sue pendici, periodicamente ricorda a chi vive ai suoi piedi di essere il più grande vulcano europeo. Per fortuna, però, abbastanza tranquillo, anche perché, a differenza degli altri che producono una lava che nasce dalla fusione della crosta terrestre e porta a frequenti esplosioni, attinge il suo magma direttamente dal mantello della Terra.

Senza che la cosa debba preoccuparci più di tanto, ricordiamo che nel 2017 una campagna oceanografica svoltasi al largo di Palinuro ha portato alla scoperta di una dorsale vulcanica lunga ben 90 km, nella quale, a una profondità tra gli 80 e i 3.200 metri, si aprono 15 crateri di cui alcuni già noti e altri del tutto sconosciuti, come i tre recentemente identificati e subito battezzati Diamante, Enotrio e Ovidio.

Se questi sono spenti da migliaia di anni, non lo è affatto il più noto vulcano sommerso del Tirreno, che sarebbe in realtà il più grande d’Europa se fosse emerso: il Marsili, con il suo cratere che arriva ad appena 500 metri dalla superficie e le pendici che affondano fin oltre i 3.000 metri. Una sua eruzione potrebbe provocare gravi conseguenze, tuttavia, vale qui la pena di ricordare che, purtroppo, nonostante i progressi della scienza e della tecnologia, non è possibile formulare previsioni.

L’isola che non c’è

Banchi e isole scomparse ci ricordano come il Canale di Sicilia sia sottoposto a un’azione tettonica molto attiva. I banchi (Terribile, Graham, Bannock e altri), che in alcuni punti affiorano alla superficie, sono ben noti a tutti i pescatori. Pochi ricordano invece Ferdinandea, isola dalla breve vita, che emerse nella notte fra il 10 e l’11 luglio del 1831 sedici miglia al largo di Sciacca, spinta dall’attività vulcanica sottomarina fino a toccare i 65 metri d’altezza ma poi tornata in profondità dopo meno di un anno.

Isola Ferdinandea

Ciò non impedì che ben tre potenze dell’epoca  – Regno delle Due Sicilie, Inghilterra e Francia – incominciassero a contendersene il possesso, anche perché il fenomeno si ripeté per alcuni giorni nel 1846 e, anche successivamente, nel 1863. Nel 1968, a seguito del famoso terremoto del Belice, sembrò che l’isola volesse riemergere, cosa che in realtà non avvenne. Comunque, con l’intento di troncare sul nascere ulteriori possibili equivoci, i pescatori locali apposero sul fondo una targa con su scritto: “Questo lembo di terra, una volta isola Ferdinandea, era e sarà sempre del popolo siciliano”. Il che, tuttavia, non funzionò come sperato: nel 1986 il cappello dell’isola fu erroneamente scambiato per un sottomarino libico e, pertanto, venne centrato da un missile americano mirato, in realtà, a colpire Tripoli. Insomma, un’isola senza pace! Oggi quella sommità riposa a circa 8 metri di profondità.

Ne  fuoriescono ancora quei fumi gassosi che, nel tempo, hanno dato al corallo presente sulle pendici del cono vulcanico un particolare colore rosa-salmone.