Tavole rotonde, ricerche, conferenze stampa, dichiarazioni, interviste: sono davvero tante le occasioni nelle quali si dibatte sui problemi della nautica italiana. E, al centro del bersaglio, ci sono immancabilmente i soliti temi: fisco, burocrazia, leggi, normative, demanio eccetera. Assai difficilmente, invece, si parla di quello che, a mio parere, è uno dei peggiori ostacoli all’ampiamento della platea degli armatori, nonché l’aspetto più odioso della vita di chi già possiede un’unità da diporto.

Parlo degli avversari interni, non di quelli che stanno “d’ufficio” dall’altra parte del fronte. Intendo dunque quell’ampia schiera di piccoli-medi-grandi speculatori che, per il solo fatto di operare a vario titolo in questo settore, si sentono autorizzati a spennare sfacciatamente il diportista, sfilandogli dal portafogli il triplo, il quadruplo, il decuplo del giusto.

O, addirittura, a chiedergli di pagare somme non dovute. Qualche tempo fa, un artigiano – apparentemente molto professionale – mi disse candidamente che il prezzo per una sua prestazione lo faceva guardando in faccia il cliente. Un’altra volta, un ormeggiatore mi chiese 250 euro per trascorrere la notte ormeggiato alla banchina dei traghetti, raccomandandomi di andar via prima delle 6 del mattino seguente, quando sarebbe arrivata la nave. Per non parlare di quei cantieri che, pur producendo “in serie”, non ci dicono quanto costa la barca che espongono a un salone, perché il prezzo lo improvviseranno in altro momento. Ma che razza di mondo è questo, che nega al possibile acquirente il diritto di sapere se può permettersi quella spesa o se la cifra che gli viene richiesta è rapportata al valore dell’oggetto o del servizio?

Non sarà che a forza di magnificare lusso ed eleganza (oggi, persino di un modestissimo barchino si dice che è “esclusivo”) il parlare di soldi è diventato volgare? Ovvio che non è così. Però è vero che, a forza di parlarne, si è diffusa la convinzione che la nautica sia solo roba da ricchi e da questo assunto, originariamente errato, si è passati a renderla effettivamente un’attività costosa, che non è per tutti.

Si potrebbe obiettare che il prezzo si basa sulla legge della domanda e dell’offerta e che, perciò, in economia, la sua “elasticità” è da considerare fisiologica. Anche questo è vero. Peccato però che, all’interno di un mercato globale, il fatto che un Paese come l’Italia si comporti diversamente dagli altri – e in particolare dai suoi vicini – fa sì che quella domanda si sposti automaticamente laddove l’offerta è più conveniente. Ed ecco la tipica emigrazione di armatori e yacht nostrani verso altri lidi: un ulteriore fenomeno penalizzante per le casse dello

Stato e per le tasche degli operatori. Il cane che si morde la coda, insomma.
È sempre stato così? No. Ricordo agli appassionati più giovani che, più o meno cinquant’anni fa, una famigliola moderatamente benestante poteva permettersi un cabinato persino di 10 metri (misura, allora, di tutto rispetto) per trascorrervi le vacanze e qualche weekend fuori stagione. Non a caso si parlava di “nautica popolare”: definizione che oggi fa rabbrividire gli influencer da tastiera. Quei tanti che non sanno distinguere la poppa dalla prua.