FRA ACQUA E ARIA

Finora ci siamo occupati quasi sempre del vento e della sua azione sulle vele. Dell’acqua e della sua azione sull’opera viva della barca se ne è solo accennato (regolazioni della deriva e del timone). Ma anche se riteniamo giusto occuparci essenzialmente di ciò che si può vedere in barca, quindi del vento e delle vele, è erroneo trascurare, come spesso accade, la parte immersa quindi nascosta della barca. Infatti, solo l’azione simultanea dell’aria sulla vela e dell’acqua sulla deriva permettono alla barca di navigare. Vedremo che c’è una simmetria tra idrodinamica e aerodinamica nel movimento di un’imbarcazione: le conseguenze dell’impatto dell’acqua sull’opera viva (idrodinamica), sono qualitativamente le stesse che si hanno per l’impatto dell’aria sulle vele (aerodinamica). I due fluidi in questione possono muoversi rispetto alla terraferma (costa, fondo del mare). L’aria che si sposta è il vento, l’acqua che si sposta è la corrente. Quello che conta, per riuscire a navigare (e con questo intendiamo anche manovrare), non è la loro velocità assoluta, ma la loro velocità relativa. Ovvero, la barca può navigare solo se c’è differenza di velocità tra aria e acqua (la differenza può essere data anche da pari intensit&agrave , ma da direzioni diverse). Cerchiamo di chiarire le idee considerando separatamente lo scafo immerso nell’acqua e la vela nell’aria. Un qualsiasi scafo privo di vela, e di ogni altro tipo di propulsione (motore, remi), si muove insieme all’acqua rispetto alla terra, grazie alla corrente, e nella sua direzione, senza possibilità di governare, proprio come fosse un tronco di un albero alla deriva. E analogamente, una qualsiasi vela priva di scafo, che galleggi nell’aria (magari grazie ad un gas, come la mongolfiera), si muove insieme all’aria rispetto alla terra, grazie al vento, senza possibilità di cambiare direzione, proprio come fosse un palloncino scappato dalla mano di un bambino. Quindi la forza idrodinamica sul tronco e quella aerodinamica sul palloncino alla deriva, sono nulle. I due oggetti sono fermi, il primo rispetto all’acqua e il secondo rispetto all’aria. Se invece al tronco attacchiamo il palloncino (o meglio allo scafo attacchiamo una vela), le cose cambiano: il vento che spinge sulla vela fa muovere lo scafo rispetto all’acqua. Questo quindi viene investito da un flusso d’acqua che crea una forza idrodinamica su di esso.Analogamente, la corrente che spinge sullo scafo fa muovere la vela rispetto all’aria (facendola gonfiare). La vela, quindi, viene investita da un flusso d’aria che crea una forza aerodinamica su di essa. Nei casi limite, una barca a vela naviga anche in una giornata senza vento ma in presenza di corrente, così come naviga in una giornata ventilata ma senza corrente. Resta ferma, invece, rispetto al fondo del mare, quando il vento e la corrente sono pari a zero, e si muove come un tronco alla deriva nella stessa direzione della corrente (con le vele sgonfie e senza possibilità di governare), quando corrente e vento hanno la stessa intensità e la stessa direzione.

PERCHÈ UNA BARCA A VELA AVANZA

Come abbiamo visto nella seconda puntata, il vento che viene deviato dalla vela agisce su di essa con una forza circa perpendicolare alla sua corda. Questa forza aerodinamica è applicata al centro velico(CV), che può essere considerato, in prima approssimazione, il punto medio della vela. Analogamente e contemporaneamente anche l’acqua, quando la barca è in movimento, viene deviata dalla deriva, e agisce su di essa con una forza applicata circa nel punto medio dell’opera viva, detto centro di deriva (CD). Questa forza idrodinamica è esattamente uguale e opposta a quella aerodinamica che il vento esercita sulla vela.N.B.: per semplicità grafica, nel disegno abbiamo considerato solo il piano del flusso d’acqua che investe la sezione della deriva passante per il CD, punto medio dell’opera viva. Resta implicito, per&ograve , come la forza idrodinamica sullo scafo sia determinata dalla deviazione del flusso d’acqua, da parte di tutta l’opera viva (compreso il contributo, quindi, della parte di scafo immersa e del timone). Lo stesso discorso vale anche per la vela e per l’opera morta (la parte di scafo emersa).

Il risultante della forza aerodinamica e della forza idrodinamica è quindi uguale a zero. È come per il tiro alla fune quando le due squadre in gioco si equivalgono: ci sono un gran tirare e un grande sforzo ma nessuno si sposta. Come pu&ograve , dunque, una barca a vela soggetta a tali forze, uguali ed opposte, avanzare? Sarebbe più facile pensare che una barca si muova a causa di una forza risultante diversa da zero, e nella direzione del moto. Senza addentrarci troppo nei principi della fisica, immaginiamoci su una barca ferma ben ormeggiata al pontile, con le vele alzate e a segno. La vela è sollecitata da una forza aerodinamica determinata dall’azione del vento, mentre l’opera viva non viene colpita dal flusso dell’acqua perchè la barca è ferma e, per semplicit&agrave , non c’è corrente.

Molliamo gli ormeggi: la barca comincia a muoversi e ad acquistare quindi una certa velocità (freccia rossa), nella stessa direzione della forza aerodinamica (blu). Un flusso d’acqua, avente direzione opposta, inizia a colpire l’opera viva, dando origine a una piccola forza idrodinamica. Questa forza, dovuta al flusso dell’acqua deviato dall’opera viva, va a sommarsi a quella del vento sulla vela. Il moto della barca avviene non più in direzione della forza aerodinamica ma in quella del risultante (viola), scaturito dalla somma vettoriale della forza del vento sulla vela e di quella dell’acqua sull’opera viva. La forza idrodinamica inoltre aumenta sempre più in relazione alla maggior velocità della barca e progressivamente la sua direzione si sposta verso poppa. Così facendo anche la direzione del risultante, e quindi del moto della barca, si sposta sempre più verso prora (la barca adesso scarroccia meno). La barca smette di accelerare, ma non di navigare, quando le due forze, aerodinamica e idrodinamica, diventano uguali ed opposte, ovvero quando ha raggiunto la sua velocità di regime. Stesso discorso può farsi con una barca ormeggiata in banchina col vento in poppa. Le vele si gonfiano dando origine ad una forza aerodinamica che viene contrastata dalle cime in tensione. Se molliamo gli ormeggi, la barca inizia a muoversi per effetto di tale forza. Per la velocità acquisita, nasce una forza idrodinamica sull’opera viva (resistenza all’avanzamento), opposta a quella aerodinamica, che aumenta al crescere della velocità fino a divenire uguale alla forza aerodinamica sulle vele. A quel punto, anche quella barca, ha raggiunto la sua velocità di regime. Quindi, se è vero che una barca a vela in navigazione è soggetta a due forze uguali ed opposte (il cui risultante è uguale a zero), è anche vero che queste si determinano quando la barca ha raggiunto una velocità costante, scaturita dalle stesse forze che in fase di accelerazione, per&ograve , non sono n&eacute uguali n&eacute (a parte il caso del vento in poppa) opposte. Secondo il primo principio della dinamica (il principio d’inerzia) poi, la barca prosegue nel suo moto a velocità costante fino quando non interviene qualche fattore esterno che ne altera l’equilibrio (mutamento del vento, della rotta, dell’assetto, della regolazione delle vele, ecc), che la fa accelerare o frenare. Ad esempio, se il vento aumenta, cresce la forza aerodinamica sulle vele e, di conseguenza poi, quella idrodinamica sullo scafo. La barca accelera, fino a trovare un nuovo equilibrio con una velocità di regime più elevata. Se invece il vento diminuisce, succede il contrario: decresce la forza aerodinamica facendo prevalere per un attimo quella idrodinamica, e la barca frena fino a raggiungere un altro equilibrio a velocità più bassa.

SBANDAMENTO E STABILITA’

La barca a vela naviga quasi sempre più o meno inclinata.Se consideriamo le componenti sul piano trasversale della barca, della forza aerodinamica e della forza idrodinamica, che sono anche loro rispettivamente applicate al centro velico e al centro di deriva, notiamo che queste lavorano disassate tra loro. Quindi pur essendo anche loro uguali ed opposte, creano una coppia sbandante sottovento. Questa a sua volta è contrastata (deve esserlo altrimenti la barca scuffierebbe), da una coppia raddrizzante formata da due forze anch’esse uguali, opposte e disassate tra loro. Una è la spinta idrostatica o spinta di Archimede, applicata al centro di carena (da non confondere con il centro di deriva) che è il centro di volume della parte immersa dello scafo e che fa galleggiare la barca spingendo dal basso verso l’alto. L’altra forza in gioco nella coppia raddrizzante è quella del peso, applicata al centro di gravità che è il baricentro complessivo della barca più l’equipaggio fuoribordo. Se la barca naviga con un angolo di sbandamento più o meno costante, la coppia sbandante e quella raddrizzante sono in equilibrio fra loro. Naturalmente ciò avviene anche se la barca naviga piatta sull’acqua. Un fattore esterno, per&ograve , può turbare in qualsiasi momento questo equilibrio. Sotto raffica, ad esempio, la coppia sbandante aumenta, e se non saremo noi ad intervenire per riportare la barca in una situazione di equilibrio, questa potrebbe scuffiare. Non potendo aumentare di intensità n&eacute la forza della spinta di Archimede n&eacute quella del peso, dobbiamo spostarci sempre più sopravvento e fuoribordo (ad es. usando il trapezio), per aumentare la distanza tra le rette d’azione delle due forze, ovvero il braccio della coppia raddrizzante. Altrimenti si può diminuire l’inclinazione della barca intervenendo sulla coppia sbandante, diminuendo cioè la superficie di vela esposta al vento e/o la superficie di deriva investita dal flusso dell’acqua. Si pu&ograve , ad esempio, ridurre la velatura (sono poche le derive sul mercato che dispongono di un sistema per ridurre parzialmente la randa; su tutte quelle però che dispongono di due vele, se ne può ammainare una), lascare le vele o sollevare parzialmente la deriva. Non staremo qui a dimostrare, ma si potrebbe farlo, che lo sbandamento, lo scarroccio e la velocità sono strettamente dipendenti tra loro: più la barca è sbandata e più scarroccia, più la barca naviga veloce e meno scarroccia. Per concludere il discorso sulla stabilit&agrave , intesa come la tendenza che ha una barca ad opporsi allo sbandamento, diciamo che le derive sono progettate con carene piuttosto larghe per conferire loro una certa stabilità di forma (questo tipo di stabilità trova la sua massima espressione nei catamarani). Su un cabinato, invece, dove la deriva è piuttosto pesante, magari con un contrappeso all’estremit&agrave , prevale la stabilità di peso. In tutti e due i casi, comunque, il progettista cerca di aumentare la stabilità della barca, aumentando la coppia raddrizzante.

PERCHÈ UNA BARCA A VELA PUÒ RISALIRE IL VENTO

Cerchiamo ora di analizzare più in dettaglio l’azione dell’aria sulla vela e quella dell’acqua sulla deriva che sono, come abbiamo già detto, qualitativamente uguali. Introduciamo il concetto della portanza, avvalendoci dell’esempio del mondo aeronautico dal quale questo termine, che vedremo poi utilizzato anche nel mondo nautico, deriva. Un aereo in volo è soggetto a quattro forze. Le prime due sono rispettivamente la spinta propulsiva dovuta al motore che lo spinge in avanti, e la resistenza all’avanzamento che ha la stessa direzione del flusso d’aria che investe l’aereo.

Le altre due forze sono rispettivamente il peso dell’aereo diretto verso il basso, e la portanza che è perpendicolare al flusso dell’aria. Quando l’aereo raggiunge una quota ed una velocità di regime, il risultante di queste quattro forze è uguale a zero, la spinta propulsiva è uguale ed opposta alla resistenza ed il peso è uguale ed opposto alla portanza. Anche sulla vela e sulla deriva di una barca, se scomponiamo la forza aerodinamica e quella idrodinamica, nelle direzioni perpendicolari e parallele ai flussi d’aria e d’acqua, troviamo le portanze e le resistenze. Si può dire che la barca a vela si comporta come uno strano aeroplano, con un’ala (vela) nell’aria e l’altra (deriva) nell’acqua. Anche se questo parallelismo fra una barca a vela e un aeroplano ha numerosi limiti, evidenzia che una qualsiasi lama (ala, vela e deriva) investita da un fluido, aria o acqua che sia, è soggetta ad una forza che può essere sempre scomposta in portanza e resistenza. Questi due nuovi concetti sono stati introdotti per approfondire il discorso, già accennato nella prima puntata, sul comportamento della vela nelle diverse andature: ostacolo al vento nelle andature portanti e deviatore del vento in quelle strette. Il moto del vento che colpisce la vela di una barca che naviga in un’andatura portante è un moto turbolento, perchè il flusso dell’aria, incontrando quasi perpendicolarmente la superficie della vela, si rompe in numerosi vortici. In queste andature si cerca di opporre il massimo ostacolo al vento, aumentando la superficie velica (possiamo alzare lo spinnaker), e il minimo ostacolo all’acqua, alzando in parte la deriva e tenendo la barca piatta. Scomponendo la forza aerodinamica dell’aria sulla vela di una barca con andatura portante, vediamo che la resistenza (nella direzione del flusso dell’aria) è maggiore rispetto alla portanza (perpendicolare al flusso dell’aria). Stessa cosa succede scomponendo la forza idrodinamica del flusso dell’acqua sulla deriva: grande resistenza, piccola portanza.

Nelle andature strette invece, la forza aerodinamica si scompone in una portanza che predomina sulla resistenza. La vela a segno (lascata al limite del fileggiamento), devia il flusso del vento senza romperlo e quasi senza formare vortici (moto laminare). In queste andature si cerca di regolare al meglio le vele (vedremo come fare), per avere la massima portanza che in teoria si ha quando l’angolo di incidenza, tra il vento e la vela, è piuttosto piccolo (nell’ordine dei 15° ), per disturbare poco il flusso dell’aria deviato dalla vela e limitare così la formazione di vortici. Per quanto riguarda invece la forza idrodinamica del flusso dell’acqua sullo scafo nelle andature strette, per ridurre la notevole resistenza che l’opera viva oppone all’avanzamento, possiamo solamente cercare di tenere la barca il più possibile piatta sull’acqua. Non conviene alzare la deriva (tranne con vento forte, quando si vuole ridurre l’eccessivo sbandamento), in quanto aumenterebbe lo scarroccio e diminuirebbe la portanza idrodinamica. Ed è proprio la portanza sulla deriva che nasce per effetto dello scarroccio, a permettere alla barca a vela di avanzare di bolina e quindi di risalire il vento. Finora abbiamo sempre parlato di scarroccio, come di un effetto indesiderato (ci fa deviare dalla nostra rotta ideale), che riusciamo a contenere nei limiti, grazie alla deriva. Ora invece scopriamo che se la barca a vela non scarrocciasse, il flusso dell’acqua sulla deriva avrebbe un angolo di incidenza uguale a zero, e non si avrebbe la portanza che, come vedremo fra poco, nasce dalla deviazione di un flusso e permette l’equilibrio fra la forza idrodinamica e quella aerodinamica, senza il quale la barca non potrebbe navigare. Per capire come nascono resistenza e portanza, consideriamole l’una indipendente dall’altra. Infatti, come vedremo, pur essendo i due fenomeni quasi sempre coesistenti, l’origine fisica che sta alla base dei due concetti è sostanzialmente diversa.