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“Gli ultimi cinquanta metri di una maratona”

Intervista di Corradino Corbò a Franco Fusignani

Con il varo di tre navi della lunghezza di oltre cento metri in poco più di tre mesi – l’ultimo il 28 marzo scorso – sembrava che il cantiere di Livorno potesse in qualche modo rallentare il ritmo per  riprendere fiato. Invece no: ci sono nuovi obiettivi, altrettanto ambiziosi, da raggiungere entro la fine dell’anno. Ci racconta  tutto, l’uomo che dal settembre 2018 guida l’azienda con grande eleganza, profonda sapienza e ferrea determinazione.

Nella numerologia dei cantieri Benetti, il 100 – o meglio ancora il latino centenarium – costituisce il simbolo perfetto dell’impressionante risultato al quale il celeberrimo cantiere è giunto dopo anni di evoluzione industriale. Cento, come i giorni che segnano l’arco di tempo entro il quale esso ha recentemente varato ben tre maestosi yacht, per un totale di 12.800 tonnellate di stazza; cento come la soglia di lunghezza che ciascuno di essi supera, assumendo a pieno diritto il prestigioso prefisso “giga”. Ma, diciamo la verità, la magia c’entra poco. Anzi, niente. Questo record, che riconferma la posizione di Benetti tra i più grandi costruttori del mondo, è il frutto della strategia di un top-manager che, prima in funzione di responsabile operativo, poi in quella attuale di amministratore delegato, ha saputo dirigere magistralmente un’orchestra composta da migliaia di elementi. È l’ingegnere Franco Fusignani.

Al contrario di certe figure omologhe, che si costruiscono un po’ goffamente l’immagine dell’uomo “che non deve chiedere mai”, questo signore – che è dotato di un curriculum professionale assolutamente invidiabile, culminato in tredici anni di stretta collaborazione in Fiat con Sergio Marchionne – è invece un uomo che chiede continuamente, si informa, vuole sapere, ascolta, prende appunti. E poi è aperto, cordiale, affabile. Lo dicono tutti nel quartier generale di Livorno, dai suoi più diretti collaboratori agli operai. E proprio lì lo abbiamo incontrato.

Nel passato, in Iveco, lei si è rivelato come un formidabile progettista di motori marini. Stavolta, come coordinatore, ha raggiunto un record che, per certi versi, sembrava addirittura più ambizioso.

È vero, è stata una bella sfida. Varare tre barche di questo genere in poco più di tre mesi è un record da Olimpiadi. Nessuno lo ha mai fatto. Abbiamo dovuto realizzare un piano organizzativo completamente diverso, creando dei team dedicati, completamente indipendenti l’uno dall’altro, con la struttura centrale che ha coordinato e aiutato intervenendo tutte le volte che ce n’è stato bisogno. In pratica tre cantieri in uno. Ciascuno con i suoi programmi, la sua pianificazione, i suoi test.

Un esercito di persone, insomma. Come avete fatto con i fornitori?

Infatti. Trovare tecnici capaci di lavorare così non è facile, tanto è vero che abbiamo dovuto richiamare pure molte persone che erano andate in pensione e che perciò erano disponibili pur avendo grande esperienza. Abbiamo preso pure dei consulenti ad hoc per questo periodo di tempo.
E poiché lo stesso principio dei team dedicati a ciascuna unità è valso pure per i fornitori, anche in questo caso ne abbiamo dovuti trovare tanti. Lo sforzo è stato enorme anche per loro, che hanno trasferito persone in cantiere – proprio come se facessero parte della nostra società – per lavorare all’interno di ciascun team per dodici ore al giorno, tutti i giorni. Il tutto seguendo una pianificazione quotidiana soggetta a un continuo aggiornamento, in modo tale da avere a disposizione i fornitori giusti al momento giusto ed eliminare i tempi morti. E poi c’è un altro segreto: a mano a mano che gli ambienti sono finiti, che le aree sono completate, farle approvare e chiuderle, come se non esistessero più. Questo vuol dire sezionare la barca per ponti e per compartimenti e, in certo senso, completarla step by step. In continuazione, ogni giorno, ogni ora.

Quanto di tutto questo è dovuto alla sua esperienza precedente in Fiat, a fianco di Marchionne?

Abbastanza. Soprattutto per ciò che riguarda la pianificazione dei fornitori, le sequenze, la tempistica, l’intervenire tutte le volte che è necessario, anticipare i problemi, percepirli in anticipo, stare sul campo, parlare con i fornitori e averli vicino. Quando vuoi lavorare in questo modo serve preparazione, saper fare co-design. Mai disperdersi. I problemi si risolvono sul campo, sulla barca. Per questo i nostri team non sono più negli uffici, sono a bordo barca o a piede barca. Perché i problemi sono lì e bisogna risolverli lì. Di conseguenza, io stesso sono molto sul campo.

In che cosa tutto questo si differisce dalla Benetti ante-Fusignani?

Gli uomini sono sempre quelli. In alcuni casi li abbiamo anche rafforzati, soprattutto in alcune funzioni. Abbiamo portato l’ingegneria di base – intendo i calcoli delle strutture, lo sviluppo delle prove, delle funzionalità – tutta all’interno, mentre prima era in parte anche all’esterno. Questo responsabilizza le persone, conferisce una grossa solidità al processo e, soprattutto, consente tempi di reazione molto molto brevi. Il manager deve stare un passo indietro e dare immediatamente il suo aiuto dove serve, anticipando il problema. Se, per esempio, oggi prevedo che tra una settimana avrò una certa complicazione, vado immediatamente a visitare il fornitore insieme con il capo della progettazione e cerco di trovare le giuste soluzioni prima che il problema insorga.
Questo è il modo principale di lavorare. L’altro modo è quello di parlare in continuazione con i surveyor, perché poi sono loro che devo approvare il tipo di attività, il tipo di processo, il tipo di prova. Quindi la regola è: trasparenza assoluta dei problemi, che poi affrontiamo assieme.

In che modo questi processi di standardizzazione si armonizzano con l’esigenza della personalizzazione, del pezzo unico, del one-off?

Il segreto è uno solo: pianificare per tempo tutte le attività. Se lo fai, riesci persino a esaltare l’artigianalità. E se lavori con il fornitore facendo co-design ottieni risultati eccellenti anche sul piano della qualità. Insomma, non serve il disegno fatto qui e spedito al fornitore: devi lavorare fianco a fianco con lui. O il fornitore da te o te da lui, mettendo i tecnici e gli ingegneri a lavorare assieme. È così che riesci a chiudere immediatamente il cerchio. Non c’è più la fase ‘accetto-non accetto’, ‘facciamo la modifica, non la facciamo’ eccetera, poiché quella determinata cosa l’abbiamo progettata assieme, costruita assieme, provata assieme. Per esempio, tutti i nostri arredamenti – saloni, cabine, bagni eccetera – vengono realizzati e montati prima nella sede del fornitore, dove ci sono tutte le dotazioni e gli uomini che permettono di renderli perfetti, poi vengono smontati e portati a bordo. Ecco che, in questo modo, proprio perché riesci a metterla all’interno di un processo industriale che lavora a monte, l’artigianalità ne risulta estremamente valorizzata. Porto a monte il progetto, porto a monte la qualità, porto a monte la decisione. E così tutto scorre in modo assai più fluido fino alla conclusione.

Poi, magari, i problemi arrivano lo stesso ma in questo modo puoi affrontarli molto meglio.

Esattamente. E in questo senso, è assolutamente necessario non stancarsi mai di fare esperienza, di ripetere i test. Mai fare qualcosa che non hai provato più volte prima, sperando in Dio. Se lo fai, vai immancabilmente incontro alla famosa ‘legge di Murphy’: se c’è la possibilità che qualcosa vada storto, andrà sicuramente storto. Il rischio va parcellizzato il più possibile, perciò tutta la filiera deve lavorare in quel modo, seguendo una sorta di codice che non è solo comportamentale. Faccio l’esempio delle tubazioni, che devono essere sempre lineari, ben visibili e perfettamente identificabili: in questo modo, se devo sostituire – poniamo – l’elemento B 224, so subito che è lungo 12 metri, ha quel diametro e che necessiterà di una determinata congiunzione eccetera.
Il che ha una ricaduta estremamente positiva anche sul servizio post-vendita, sul service eccetera.
Assolutamente sì. Se da una parte l’alto livello qualitativo delle nostre barche mette l’armatore al sicuro dalle brutte sorprese, dall’altra ci permette di essere altrettanto precisi, puntuali, rapidi e affidabili quando dobbiamo intervenire per qualsiasi cosa che riguardi la loro vita dopo la consegna.

Quanti fornitori e quante persone lavorano alla costruzione di una nave di oltre 100 metri?

Siamo arrivati a circa 80 fornitori, di cui 30 ‘importanti’. Quindi una bella selezione. A bordo di una nave lavora quotidianamente una media di 250 persone, arrivando, nelle fasi cruciali, anche a 420-470. Operiamo in sequenza: certe attività – per esempio, quando si muovono materiali, quando c’è bisogno anche della luce naturale per eseguire certe finiture – bisogna farle di giorno; altre – come certe riparazioni che non devono interrompere la catena del lavoro – le facciamo di notte. Preferisco lavorare con turni estesi di 9-10 ore per quattro giorni alla settimana, con un altro turno che entra coprendo i sette giorni. Ovviamente, però, ci sono delle lavorazioni che devono essere fatte dall’inizio alla fine dalla stessa mano: pensi a un delicato lavoro di montaggio a bordo, una lucidatura o una rifinitura di sete, di pelli, di modanature, di ritocchi.

A proposito di materiali, le quantità per costruire contemporaneamente tre navi di quella stazza devono essere impressionanti.

Sicuramente: pensi solo ai 1.100 chilometri di cablaggi, dei quali 900 per gli impianti generali e per la distribuzione della potenza e 200 per la domotica, gli strumenti, gli impianti audio-video eccetera; ai 14.000 metri quadrati di superficie verniciata; ai 7.400 metri quadrati di superficie arredata, tra aree destinate agli ospiti e aree destinate all’equipaggio. Il tutto per un totale di circa 5 milioni di ore di lavoro.

Quanto dura mediamente la fase consegna?

Pensi a una sequenza del tipo 9-6-3: 9 mesi prima della consegna definitiva arrivano il comandante, il primo ufficiale e il direttore di macchina; 6 mesi prima arriva tutto il personale tecnico di bordo; 3 mesi prima arriva l’equipaggio al completo. Per una barca di 65-70 metri i tempi più o meno si dimezzano. Comunque, se l’armatore è illuminato, il comandante lo manda il prima possibile, per dargli modo di scoprire i dettagli importanti anche durante le fasi di costruzione e di fungere pure da project manager e da surveyor. Tra l’altro i comandanti abitano proprio da noi, negli alloggi qui a Livorno, quindi vivono proprio dentro il cantiere. E lo ribadisco, è davvero molto importante.

Consegnati i tre giga, su che cosa è concentrato attualmente il cantiere?

In un certo senso, la sfida continua. Se considera che, includendovi le tre navi oltre i cento metri, qui a Livorno abbiamo in programma di chiudere l’anno consegnando un totale di 19 barche, al momento è come se stessimo correndo una maratona della quale mancano gli ultimi cinquanta metri. L’anno scorso ne abbiamo consegnate 17, tutti mega, nessun giga. A Viareggio poi, dove lavoriamo la vetroresina, abbiamo 34 yacht in costruzione e pure con questo materiale abbiamo ottenuto risultati eccellenti sui tempi di lavorazione, riuscendo a ridurli in alcuni casi del 35 per cento. In tal senso, ci sono state assai utili le esperienze del cantiere Azimut di Avigliana (l’altra parte del Gruppo Azimut Benetti, ndr) che sotto questo profilo è assolutamente all’avanguardia. Anche in questo caso, comunque, la carta vincente è stata la capacità di organizzare il lavoro a monte, per esempio, riuscendo ad allestire il più possibile lo scafo prima di assemblarlo, dunque mettendoci dentro in anticipo motori, gruppi elettrogeni, impianti di condizionamento, il piping fondamentale, i verricelli eccetera.

Ma un procedimento di questo tipo non comporta per il cantiere un maggiore capitale circolante?

Assolutamente sì. Infatti, se non si interviene pure sulla contrattualistica, questo sistema diventa un handicap economico. Perciò, se prima la tempistica dei pagamenti la stabilivi sulla base della posa della chiglia, della copertura dello scafo eccetera, ora devi collegarla ad altre fasi della costruzione: per esempio, alla chiglia, al montaggio dei motori, al montaggio dei generatori eccetera.
Ci pare di capire che, comunque, in questa sorta di rivoluzione, i vostri fornitori abbiano fatto molto bene la loro parte.
Non c’è alcun dubbio. In questi anni, la loro crescita di know-how in termini di processi qualitativi è stata impressionante. Basti solo pensare che la filiera toscana – che nei miei pensieri estendo a La Spezia – realizza, oggi, il 50 per cento degli yacht oltre i 24 metri nel mondo. E ciò avviene nonostante i grandi limiti che i diversi sistemi di progettazione dei vari cantieri comportano. Provi a immaginare che cosa sarebbe se tutta questa gente fosse collegata attraverso un unico network, se tutti parlassero la stessa lingua e utilizzassero processi comuni o comunque compatibili, proprio come da tempo si fa nel mondo dell’automotive. Ma è un investimento che dovrebbe fare un’entità superiore, che so lo Stato, la regione, le associazioni.

Ma come c’è riuscito, a suo tempo, il settore dell’automotive?

Vado indietro di vent’anni. Sono stati i tedeschi i primi, agendo più o meno in questo modo: ‘Caro fornitore, se vuoi lavorare con noi, il nostro sistema di progettazione è l’xyz e il nostro sistema di comunicazione sei vuoi parlare con il nostro ufficio acquisti, è l’yzx: hai tempo 5 anni per adeguarti. Ti aiuto, anche finanziariamente, ti do dei contratti a 3 anni, ma tu devi investire in questa operazione perché, scaduto il tempo, spengo la luce, chiudo i rapporti’. Insomma è stata una vera e propria imposizione imitata rapidamente da tutti gli altri, i quali hanno adottato gli stessi sistemi o anche sistemi diversi ma comunque perfettamente compatibili. Nella nautica, questo è mancato e continua a mancare. Poi ci si è messo pure il disastro economico, la gente che ha avuto grossissime difficoltà, gli investimenti che non ci sono stati, i cantieri che sono spariti e così via.

Ampliando lo sguardo sul mercato globale, qual è la situazione attuale?

Il mercato dei giga è costante sulle 13-14 unità l’anno e potrebbe anche crescere di 1-2 unità se non fosse che il ‘fattore tempo’ gioca a sfavore: non tutti vogliono aspettare 4-5 anni per avere la barca. Anche il mercato dei 60-80 metri è sostanzialmente costante, soffrendo anch’esso della poca standardizzazione che impone consegne a lungo termine. Al contrario, è la fascia dei 50-55 metri che si dimostra più adatta alla ripetitività, intesa come processo industriale. Lì vorrei arrivare al di sotto dei 30 mesi, anche se il numero ideale che ho in testa è 26: 24 mesi dentro in cantiere e 2 in acqua. Ci sto lavorando.

E sul fronte dell’elettrico e dell’ibrido?

Per quanto riguarda il Diesel-elettrico, parliamo di un sistema di propulsione già ottimizzato, efficiente, silenzioso, senza vibrazioni, con un perfetto tuning delle rotazioni. In crociera ti permette di decidere di usare un motore invece di due, due invece di quattro, e perciò di fare saving di carburante e di manutenzione, prolungando la vita del sistema. Poi offre tutta una serie di altri vantaggi: puoi coibentare molto bene la motorizzazione, puoi collocarla nella posizione più conveniente, per esempio lontano dalle cabine. Insomma, penso che il Diesel-elettrico sia la migliore propulsione attualmente disponibile, accanto a quella Diesel-meccanica.
Parlando di ibrido, invece, le cose cambiano. Sia dal punto di vista delle batterie sia dal punto di vista dei bilanciamenti, la situazione è ancora in piena evoluzione. Attualmente, il funzionamento full-elettrico per la propulsione è di circa due ore e bisognerà attendere 5-10 anni per portarlo a 8-10 ore. Intendiamoci, la tecnologia già c’è. Piuttosto, il problema è legato ai costi e ai volumi, con i primi legati ai secondi e i secondi legati all’applicazione. Detto ciò, non sono affatto contro il concetto in sé. Dico solo che l’ibrido è in piena evoluzione. Dico che è un po’ presto per lanciarsi completamente nell’impresa. In ogni caso, per non restare indietro a nessuno, stiamo sviluppando due progetti basati su tecnologie completamente diverse. Vedremo dove ci porteranno.

Insomma, anche in questo caso non rinuncia al suo spirito di sperimentatore.

Per carità: sperimentare, tentare, provare e riprovare sono tratti fondamentali del mio carattere. A questo proposito mi piace ricordare l’intensa collaborazione – dalla quale è scaturita poi una profonda amicizia – con l’ingegner Fabio Buzzi, fondatore di FB Design. Negli anni ’80 io gli sviluppavo i motori marini e lui faceva i record. Tuttora gli appartiene il mondiale di velocità sull’acqua, con un motore Diesel FTP, cioè Fiat. A quell’epoca, quando ancora non esistevano i sedili anti-G o i sistemi di sospensione, non era proprio una passeggiata volare con lui a 110 nodi. Dopo un’ora di test ne uscivo distrutto.

I saloni nautici, per quanto faticosi, sono sicuramente meno impegnativi e, soprattutto, meno pericolosi. Ma sono ancora tanto importanti per un cantiere come Benetti, che può creare da sé eventi molto più mirati?

I saloni che ospitano barche molto grandi – in parte quello Cannes ma ancora di più quello di Monaco – sono utili perché ci permettono di invitare i clienti di quella zona geografica. A me personalmente piace molto riunirne qualcuno in salotto, a bordo, dopo avergli mostrato la barca, sollecitando qualsiasi tipo di critica. Dov’è che ho sbagliato? Che cosa mi suggerisci? Cosa posso fare meglio? Lo ritengo un momento molto importante. Certo, possiamo ottenere lo stesso risultato organizzando un evento ad hoc e, anche in questo caso, cerchiamo di organizzare la visita del cliente potenziale – che magari non ha esperienza diretta delle nostre barche – in modo tale che abbia tutto il tempo necessario a comprenderne bene il senso, l’essenza, i dettagli. Insomma, una filosofia ben diversa da quella di chi espone barche molto più piccole all’interno di un salone generalista, dove si punta anche sul visitatore che si presenta lì per caso e dove le visite a bordo possono succedersi anche con una certa frequenza. Quel genere di fiere – penso soprattutto al Nautico di Genova – è dunque molto importante anche per l’aspetto promozionale nei confronti di chi, per esempio, non ha mai messo piede su una barca e che magari, proprio grazie a quella visita estemporanea, decide di diventare diportista.

Il suo rapporto con il web e con i social?

È un obbligo, perché soprattutto le giovani generazioni stanno lì. Il web è uno strumento valido per dare l’immagine di gruppo, per comunicare le cose che stai facendo, le tecnologie che stai sviluppando, gli eventi che stai creando o ai quali stai partecipando. Ma deve essere serio, di contenuti e facilmente fruibile, altrimenti diventa una macchina infernale. Devi essere molto attento al messaggio che lanci.

E i suoi rapporti con la proprietà?

Allora, noi tutti in Benetti abbiamo l’enorme vantaggio di avere una proprietà che partecipa attivamente e con enorme competenza alla complessa vita del cantiere. Paolo Vitelli è un grande fondatore di aziende, un’inesauribile fonte di idee innovative, un uomo che non si siede mai sugli allori. E, in tutto questo, è seguito puntualmente dalla sua famiglia. Ha una visione chiara su tutto e, quando ha un’intuizione, deve subito condividerla con me, a qualsiasi ora del giorno o della notte. L’ultima, l’altro ieri, alle 3.56.

Benetti Yacht