II coraggioso viaggio di uno dei più grandi marinai dell’epoca eroica della vela.

di Corradino Corbò

capitan-repetto-alle-hawaii-ph_corbo-03 Il 1845 si era annunciato con una fila di giornate limpide e assolate, cosa alquanto rara in quel periodo dell’anno in Liguria. Vedere il mare blu e poter distinguere, anche a grande distanza, tutti i colori del Golfo Azzurro, illudeva che anche altrove, mille miglia lontano o anche più, ci fosse la stessa serenità. Così, il pensiero dei propri congiunti, imbarcati sulle navi in giro per il mondo, diventava più dolce, meno struggente.
A Camogli – che a quei tempi possedeva un’imponente flotta di velieri – le donne, per sentirsi più vicine a quei valorosi marinai, andavano ogni giorno a pregare nella chiesa della Madonna del Boschetto. Nell’ultimo banco della fila di destra, come d’abitudine, sedeva Angela Schiaffino. Pettinata e ben vestita come si conveniva alla moglie di un comandante, ella aveva accanto a sé i suoi due figli: Giacomo Filippo, quindici anni appena compiuti, e Fortunato, di nove. Era lì per chiedere alla Vergine – per il quattrocentotrettottesimo giorno consecutivo – di proteggere il suo amato marito lontano, il capitano Luigi Repetto, e di farlo tornare al più presto alla sua famiglia. Era solo una parziale coincidenza il fatto che ella portasse lo stesso nome della bambina dodicenne – Angela Schiaffino, appunto – alla quale, il 2 Luglio del 1518, era apparsa miracolosamente la Madonna, che le aveva chiesto di riferire ai camogliesi il suo desiderio che in quello stesso luogo della Valle di Ruta venisse edificata una chiesa. Proprio quella chiesa.
Centinaia di pitture ex-voto, raccolte in una cappella laterale, rammentavano drammaticamente la debolezza dell’uomo di fronte alla terribile forza degli elementi. E, a rendere ancora più crude le immagini di quelle navi travolte dalle tempeste, c’era molto spesso l’incertezza della mano che le aveva dipinte: nella maggior parte dei casi, si trattava di semplici marinai scampati per un soffio alla morte più spaventosa. Era dunque la sconfinata potenza della natura a giustificare qualsiasi atto utile ad allontanare lo spettro della tragedia. Perciò, quando a sera le camogliesi uscivano silenziose dalla chiesa, si poteva assistere a un misterioso, suggestivo rituale. Queste donne interrompevano il loro cammino verso casa ogniqualvolta, nel loro incedere, un qualsiasi stretto carruggio apriva loro la vista al mare. Allora i loro occhi si riducevano a fessure, i loro corpi si tendevano impercettibilmente alla ricerca di un segnale lontano, all’orizzonte. Poteva essere la luce di una lampara, il fanale di un bastimento o soltanto il lampo di un lontano temporale. Ciascuna di esse, come una sibilla, possedeva la chiave per interpretare quel magico segno di vita. Era così che la voce di un figlio o di un marito giungeva nel cuore di chi, per mesi o per anni, viveva nell’attesa di una notizia.
Le notizie. Quando arrivavano, riportate da altri vascelli, passate di voce in voce, potevano essere troppo vecchie e confuse per riuscire a cancellare l’ansia. Comunque, quando erano buone, venivano sempre accolte con grandi sospiri di sollievo.
Angela si alzò, si fece il segno della croce e uscì dalla chiesa preceduta dai figli. Giacomo Filippo, per le regole della sua gente, non era più un ragazzino. I suoi begli occhi azzurri avevano già più volte visto il mare aperto e le sue mani, così abili nel fare i nodi, già portavano i segni dello sforzo. Era un bravo mozzo, lo dicevano tutti. E sarebbe sicuramente diventato un ottimo comandante. Fortunato, benché ancora piccolo, conosceva tutti i nomi degli armamenti, delle vele e delle manovre. Il suo passatempo preferito era allontanarsi dalla battigia con un vecchio gozzo e scrutare il mare con quello che restava di un vecchio binocolo di famiglia. Il tuono, che esplose lì vicino, quasi senza eco, dissolse d’incanto le riflessioni della donna che, senza indugiare, strinse a sé i ragazzi e s’incamminò di buon passo per la discesa. La casa di capitan Repetto si trovava nel pieno centro dell’abitato, a circa metà del corso che attraversava Camogli a notevole altezza rispetto al livello del porto. Tuttavia – strana cosa – da nessuna delle finestre e neppure dal terrazzino si poteva vedere il mare.

A un centinaio di passi da casa, si scatenò il primo temporale del nuovo anno. La strada, che era ormai buia e quasi deserta, si animò per il ribollire dell’acqua nelle pozze e per lo scalpicciare di quella breve corsa. Giunta davanti al portone, Angela si affrettò ad aprirne l’anta e vi spinse dentro i ragazzi – ormai inzuppati – con una certa energia. Soltanto allora si accorse, con un po’ di spavento, di quella figura alta e possente che, avvolta in una palandrana nera, si era acquattata tra due lesene dell’edificio per ripararsi dalla pioggia. Era capitan Bozzo, quel vecchio marinaio con tanta voglia di scherzare, che era diventato famoso tra i bambini – e non soltanto tra quelli – per i suoi racconti un po’ fantasiosi sul mare della Cina. Questa volta, però, il volto dell’uomo aveva un’espressione tirata, seria.

Chissà, forse la pioggia oppure il freddo. Quasi meravigliandosi per quella strana angoscia che indomabile le cresceva in gola, la donna ordinò ai figli di precederla su in casa e, cercando invano di tener basso e calmo il tono della voce, si rivolse all’uomo chiedendogli senza alcun preambolo che cosa fosse successo. Il vecchio capitano le prese una mano e con grande dolcezza, ma senza alcun tentennamento, le disse che un brigantino di Nervi, entrato in porto quella mattina, proveniente dalle Isole del Guano, aveva portato notizie non buone da Capo Horn. La nave di capitan Repetto era stata vista in grave difficoltà durante una terribile tempesta, una trentina di miglia a Sud-Ovest delle isole Diego Ramirez. Non aveva più alberatura. Lo scafo stava ingavonando rapidamente, senza più governo.
Fu una notte lunghissima. Angela sedeva sul grande letto, con il figlio più piccolo accanto, addormentato. Era terribile e confortante allo stesso tempo il pensare che, forse, Giacomo Filippo e Fortunato non avrebbero sentito la mancanza del padre in maniera così traumatica. Erano infatti nati e cresciuti più con la sua idea che con la sua presenza. E l’idea non poteva morire.
Due mesi più tardi, l’8 aprile, Giacomo Filippo imbarcò su un brigantino a palo camogliese in partenza per il Mar Nero. La nave avrebbe attraversato due volte una zona notoriamente infida, non soltanto per le improvvise tempeste, ma anche per le lunghe bonacce durante le quali si metteva in moto, dalla vicina costa, la pirateria locale. Quando lo scafo scostò dalla banchina, Angela, con il piccolo Fortunato stretto al suo fianco mandò all’indirizzo del figlio maggiore la più calda delle sue benedizioni. Ancora stava piangendo una vita che in mare si era spenta e già le toccava piangerne un’altra, che in mare era appena incominciata.

La carrozza, arrancando con progressivo sforzo, aveva ormai raggiunto il dosso dopo il quale, finalmente, sarebbe cominciata la discesa verso il centro di Camogli. L’ombra delle prime case dava un poco di sollievo, dopo il sole caldo che per tutta la strada panoramica aveva affocato l’abitacolo. Era appena cominciata un’estate così splendida e profumata che non si ricordava da anni ma, a renderla davvero indimenticabile, era giunto quel prezioso successo, tanto più bello perché ottenuto con tanto sacrificio. Giacomo Filippo Repetto, diciotto anni e mezzo, marinaio di razza, tornava a casa felice e orgoglioso. Il viaggio che stava appena concludendo era stato tra i più brevi della sua vita, ma anche il più importante. A Recco, presso l’Istituto Nautico Cristoforo Colombo, aveva conseguito il diploma di Capitano di Lungo Corso. A casa fu grande festa. Nel tardo pomeriggio, a passeggio per il corso, tutti lo salutavano con quel titolo che suonava così nostalgicamente familiare: Capitan Repetto! Capitan Repetto! Forse mai come in quei momenti, Giacomo Filippo sentì dentro di sé la figura del padre: quell’uomo che talvolta gli diceva cose difficili da capire, ma delle quali poteva percepire tutta l’importanza. Ora, quegli insegnamenti gli erano perfettamente chiari. Era come se il coraggio e la saggezza di quell’uomo, vissuto appena 34 anni, si fossero limpidamente trasferiti nel suo carattere.
Sette anni più tardi, appena ottenuto il suo primo comando, Giacomo Filippo sposò Antonietta, la ragazza della quale era da sempre innamorato. La luna di miele fu molto breve: un vecchio brigantino camogliese dall’alta alberatura lo attendeva per il suo primo imbarco da “padrone assoluto, dopo Dio”. A quei tempi, essere al comando di un bastimento voleva dire avere un’incredibile quantità di compiti e di doveri. Essere sì, i provetti marinai depositari di enormi ricchezze umane e materiali, affidate da famiglie, armatori e spedizionieri, ma significava anche essere esploratori, ambasciatori, giudici, confessori, medici e sacerdoti. Anche per questo, capitan Repetto conosceva tutto di ciascuno dei suoi uomini: pregi e difetti, punti di forza e debolezze, situazioni familiari e aspirazioni. E amava così tanto quei suoi compagni, da dividere con loro, in parti uguali, il premio personale che l’armatore gli consegnava al termine dei viaggi più proficui. Ovviamente, nei suoi sentimenti era totalmente ricambiato.

O O O

Aveva 43 anni, capitan Repetto, ed era a Waterford, in Irlanda, quando gli si presentò – del tutto inattesa – l’occasione della vita. Erano trascorsi già più di quattro mesi da quando era partito da Santa Margherita Ligure. Dopo una lunga tappa a Tripoli, per imbarcare un carico di sparto, la sua nave era uscita in Atlantico e, porto dopo porto, in un’estenuante navigazione controvento, era finalmente giunta al suo attuale ormeggio, che non avrebbe lasciato se non dopo un buon nolo. Si trattava di un tre alberi – un brigantino a palo – varato nel 1871 dai Cantieri di Varazze con il nome “Grimaldo” e subito entrato a fare parte della flotta dell’armatore camogliese Antonio Ansaldo. Era un veliero agile, di appena 549 tonnellate di stazza e, proprio perché così diverso dalle altre navi ormeggiate nel porto irlandese, attirava su di sé una maggiore attenzione.

Quello scafo, snello a murata ma dalla prora alta e slanciata e dalla poppa tonda aggettante, appariva ai marinai britannici alquanto delicato e perciò poco adatto all’oceano. Inoltre, quell’alta alberatura induceva a sospettare che fosse troppo invelato. Capitan Repetto era piuttosto divertito dai coloriti commenti dei marinai locali, poiché sapeva che dietro quelle critiche – tra il perplesso e il denigratorio – si nascondeva una certa ammirazione. E poi, qualsiasi cosa gli venisse detta, egli ben sapeva come il “Grimaldo” fosse dolce sull’onda, proprio per la sua leggerezza e per quei masconi che ne sollevavano lo scafo con prontezza. E conosceva altrettanto bene la velocità con la quale si poteva cambiare di bordo, senza correre il rischio di perdere il prezioso abbrivo. No, sulle qualità della barca non vi era in lui alcun dubbio. Ma ancora di più nutriva fiducia in quel meraviglioso equipaggio che, da tanti anni, era la sua famiglia sul mare.
Passavano i giorni e il bastimento italiano era sempre fermo alla banchina. I marinai che stavano a bordo erano concentrati nelle loro faccende e parlavano un dialetto assolutamente incomprensibile. Quelli che scendevano a terra erano taciturni. Il comandante appariva e scompariva come un fantasma.


Insomma, per la gente di mare che affollava il porto di Waterford – o Port Lairge, come lo chiamavano i locali nella loro lingua, il gaelico – il veliero camogliese stava diventando sempre più misterioso. Come mai questa lunga sosta? Eppure, i traffici tra Regno Unito e Nord America erano fiorenti. Alle Antille la domanda di noli per l’Europa era in continua crescita. Solitamente la notizia di un incarico si propagava con grande rapidità e, comunque, non era difficile informarsi sulle trattative in corso. Invece, del “Grimaldo” non si sapeva nulla. Altri giorni passarono e, con la curiosità, crebbero le voci più tendenziose. Non ci sarà qualche problema con l’armatore? E se fosse imminente un sequestro? Un certo giorno qualcuno vide capitan Repetto scendere da una carrozza e raggiungere la sua nave con passi lunghi e veloci. Subito dopo, a bordo, si poté notare un grande fermento. Quindi, la prima avvisaglia di un qualcosa di molto grosso: dal “Grimaldo” era partita una richiesta di provviste assolutamente eccezionale.

A sera, infine, la notizia: completati gli approvvigionamenti, il bastimento camogliese sarebbe partito per le Isole Hawaii. Subito ci fu chi, ottusamente, sostenne che un veliero di quel tonnellaggio, non costruito in Irlanda, non avrebbe mai potuto doppiare indenne Capo Horn. Ma in realtà quasi tutti avevano accusato lo smacco: come aveva fatto, quel diavolo di un italiano, a strappare un nolo così prestigioso in terra britannica?
A Camogli, la notizia era giunta con eccezionale rapidità e l’effetto era stato travolgente. Capitan Repetto, primo italiano alle Isole Hawaii! Come nelle grandi occasioni, piazza Colombo, sul porto, si affollò di gente stupita e commossa. Nessuno avrebbe potuto affermare quale sentimento, tra soddisfazione e preoccupazione, prevalesse sull’altro. Gli uomini – tutti vecchi marinai – erano più inclini a discutere dell’impresa tra di loro, con toni entusiastici e argomentazioni tecniche, mentre le donne, tutte intorno alla mamma, alla moglie e alle figlie di Giacomo Filippo, esprimevano la loro apprensione. Tra di loro, parecchie avevano i loro uomini su quello stesso veliero. Angela, di diciassette anni, Irene di quindici, Clotilde di dieci e Teresa di tre, si guardavano attorno un poco spaesate. Dove mai sarebbe andato il loro papà?
Anche se di natura sostanzialmente diversa, lo smarrimento di Erasmo Schiaffino non era meno intenso. In qualità di fondatore e responsabile della Mutua Marittima Camogliese – società che aveva assicurato il “Grimaldo” – continuava a chiedersi perché mai, con tanti buoni noli ben più vicini, capitan Repetto dovesse andare a cacciarsi in cima all’Oceano Pacifico. Dall’altra parte del mondo.
Intanto, a Waterford, i preparativi stavano avviandosi alla conclusione e la data della partenza era stata fissata per la giornata del 5 aprile. Benché ogni cosa fosse stata programmata e lo svolgimento delle varie pratiche non presentasse particolari difficoltà, gli ultimi due giorni furono assai faticosi. Infatti – con una certa sorpresa – capitan Repetto dovette rendersi conto che la sua improvvisa notorietà aveva mosso, nei notabili del luogo, il desiderio di conoscerlo e di visitare la sua nave. Il capitano ricevette i visitatori con la consueta cortesia ma, non appena si aprì uno spiraglio di pace, come un fulmine raggiunse il cassero e da lì con voce potente, in dialetto camogliese, ordinò di mollare gli ormeggi. Erano passate da poco le tre pomeridiane quando il Grimaldo, progressivamente invelato per manovrare a vento, scostò lentamente dalla banchina portandosi al traverso di Hook Lighthouse. Quindi, sotto la spinta di tutta la tela, prese progressivamente il suo passo verso Sud-Ovest mentre dalle banchine di Dunmore East gli giungeva il festoso saluto della gente. Il viaggio era incominciato.

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Anche da anziano, capitan Repetto (nella foto in alto) – ormai ottantenne – conservava sul suo comodino la “Guida Religiosa proposta ai marinai” che aveva portato con sé nel suo viaggio alle Hawaii, lungo un percorso pari a circa due volte il giro del mondo, illustrato in alto nella pagina accanto. In basso, altre due reliquie di quell’impresa: il suo binocolo, con il quale avvistò le isole la sera dell’8 settembre 1873, e la riproduzione della collina di Ruta originariamente realizzata in bottiglia dai suoi marinai durante quel viaggio.

Trascorsero diverse settimane di tempo sostanzialmente favorevole, di buona navigazione, tra qualche calma e qualche moderato rinforzo. Ma, a circa duecento miglia dalle Isole Malvine, il tempo cambiò. L’oceano, che fino allora non aveva ancora bagnato i ponti, cominciò a formarsi di prua, in onde alte e lunghe. Il vento, invece, non accennò ad aumentare. Anzi, dapprima si mise a girare, poi, a tratti, calò di intensità. Il governo, in quelle condizioni, era davvero faticoso e tutto lasciava presagire un imminente peggioramento. In vista dell’Isola degli Stati, fidandosi del suo sesto senso, capitan Repetto ordinò di ridurre la tela, benché questo rallentasse la velocità della nave. Fece bene, poiché, nel giro di poche ore, il vento rinforzò d’improvviso e così rabbiosamente da non lasciare il tempo per ulteriori manovre.

Diversi treni di onde sembravano essersi dati convegno. In quel terribile ribollire di mare non c’era modo di disporre convenientemente la nave e, così, tra l’indomabile beccheggio e quelle spaventose rollate, era una continua cascata d’acqua che si riversava sui ponti e si infilava sottocoperta. E pensare che mancavano ancora 200 miglia al temuto Capo Horn. Capitan Repetto e il suo equipaggio non avrebbero mai più cancellato dalla loro memoria quel passaggio.

Ci vollero, infatti, ancora tre settimane di lotta durissima contro gli elementi per percorrere quel braccio di mare e sboccare nell’Oceano Pacifico. Ventuno incredibili giorni di paura per coprire una distanza che, altrove, avrebbe richiesto meno di quarantotto ore!
All’alba del centoquarantasettesimo giorno di navigazione, la vedetta annunciò l’avvistamento di una grossa nave disalberata all’orizzonte. Dopo alcune ore, capitan Repetto prese il suo binocolo e inquadrò quell’oggetto lontano. Non era una nave, ma uno strano banco roccioso, basso e del tutto privo di vegetazione.

Nella sala nautica consultò la carta: in quel punto non doveva esserci alcuna terra emersa. Tornò in coperta e ordinò di avvicinarsi con la massima prudenza, scandagliando di continuo. A occhio e croce, l’isolotto doveva essere lungo meno di mezzo miglio e non mostrava alcuna traccia di vita. Se la tabella di marcia lo avesse consentito, avrebbe fatto ammainare la lancia per una perlustrazione, ma ormai dovevano mancare pochi giorni alla meta e non era il caso di perdere tempo. Calcolò allora la posizione geografica con il sestante, l’appuntò prima sulla carta, poi sul diario di bordo e infine ordinò di riprendere la rotta per le Hawaii.

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Le belle isole apparvero per circa un’ora la sera dell’8 settembre, poi furono inghiottite dal buio. Il giorno dopo, a 158 giorni da Waterford, il “Grimaldo” entrò nella rada di Honolulu. A bordo regnava la gioia da diverse ore, ma la commozione vinse tutti quando nell’aria echeggiarono le ventuno salve di cannone con le quali re Kamekameha volle salutare la prima bandiera italiana apparsa sul suo territorio. La splendida notizia arrivò a Camogli tramite un telegramma ritrasmesso dalla California. Dalla Liguria si propagò per l’Italia. Fu un trionfo.

O O O

Anche se l’impresa era compiuta, per Giacomo Filippo e i suoi uomini il viaggio era ancora nel pieno del suo svolgimento e ricco di incognite. La nave fu caricata e nuove provviste vennero stipate nella cambusa. Quindi, con non poca nostalgia per quel magico posto che non avrebbero mai più rivisto, gli uomini del brigantino a palo camogliese salparono le ancore. Per un po’ furono accompagnati dai canti che gli indigeni sulla spiaggia avevano intonato in segno di saluto. Addirittura, una piccola flotta di veloci canoe li seguì per qualche miglio. Poi, di nuovo soli, presero la rotta per l’Isola di Baker. Qui, completato il carico di merci generali, il “Grimaldo” andò ad affrontare nuovamente Capo Horn. Dopo 161 giorni di navigazione da Honolulu, il “Grimaldo” arrivò a Londra.

Persino nella capitale inglese non mancarono segni di vivo apprezzamento per l’impresa, ma Giacomo Filippo, come sempre restio a lasciarsi cullare dalla gloria, preferì stringere i tempi. Il “Grimaldo” lasciò dunque Londra per le Antille, dove fece carico per Dunquerque. Da qui riprese il mare per Pensacola, dove l’attendeva del legname destinato a Genova. Insomma, dopo le Hawaii, ci furono ben quattordici mesi di campagna atlantica. Ma, finalmente, in una bella sera di fine estate del 1873, dopo quasi tre anni di mare aperto e un percorso pari a due volte il giro del mondo, il “Grimaldo” rientrò trionfante nel porto di Santa Margherita. Capitan Repetto scese a terra appena possibile e prese una carrozza, pregando il cocchiere di fare più in fretta che poteva.

O O O

Antonietta sedeva vicino alla finestra che affacciava sul corso, pallidamente illuminato dalle lanterne. La sera prima aveva appreso che il “Grimaldo” era arrivato e che tutti, a bordo, a parte l’impazienza di sbarcare, stavano bene. L’attesa era snervante e non c’era nulla che potesse allentare la tensione. Poi d’un tratto, in lontananza, il rumore degli zoccoli di un cavallo e il cigolare delle ruote.

La carrozza si fermò proprio sotto la finestra. Allora Antonietta si alzò di scatto, prese la lanterna a petrolio che teneva sempre sul tavolino a fianco della porta d’ingresso e la porse a Clotilde, dicendole di andare incontro al padre. La bambina, emozionata per questa inattesa responsabilità, cominciò a scendere, passo dopo passo. Giunta a metà della scala, vide il portone aprirsi e si fermò.
Giacomo Filippo volse lo sguardo verso la luce tremolante, poco più in alto. Vide quella figura di bambina e chiese con voce rotta dall’emozione: “E tu chi sei?”. “Sono la Tilde” rispose seria, senza meraviglia sua figlia. Già possedeva il senso del tempo. Aveva imparato ad aspettare.