209, LICENZA DI SPIA

Men 209Il Men 209, lo yacht che nel mese di agosto 1999 ha ospitato il capo dello stato Carlo Azeglio Ciampi, ha un passato da nave spia, come già riportato in vari articoli di stampa. Abbiamo incontrato l’ufficiale che fu il primo comandante del Men 209, che preferisce rimanere nell’anonimato pur concedendoci questa intervista.

Men 209

Comandante, può raccontarci qualcosa degli anni da lei trascorsi sul Men?

Sì, ci proverò, ma prima vorrei dire che i cinque anni passati sul mezzo sono stati esaltanti, vuoi perché è stata una esperienza completamente nuova, spesso addirittura inventata, vuoi perché gli equipaggi che si sono alternati erano costituiti da elementi assolutamente eccezionali, sia sotto il profilo professionale che quello umano. Molte cose è possibile farle solo se si ha a disposizione del materiale umano di questo tipo. Ma veniamo al Men.

Con l’ingresso in Mediterraneo nel 1970 di navi militari sovietiche si pose il problema, per la Marina Militare, di poter intercettare le comunicazioni radio e captare le emissioni radar.

Men 209

A differenza della marina sovietica che usava navi idrografiche che con la loro selva di antenne dichiaravano lo scopo della loro missione nei nostri mari, la Marina pensò di progettare una nave lusoria (yacht) che nascondesse all’interno gli apparati in grado di intercettare le comunicazioni e le emissioni radar della flotta sovietica. Pari cura venne posta nel celare anche ad un occhio esperto i sensori in grado di intercettare (antenne), posizionandole in una parte esterna dell’imbarcazione, ma all’interno di una sovrastruttura. La porta segreta che celava lo spazio all’interno dove erano contenute le apparecchiature di rilevazione fu costruita a terra e poi installata dopo la consegna. Ideatore fu l’allora capitano di fregata capo dell’ufficio D/E del 2° reparto, che ritengo la mente migliore che avesse in quel tempo la Marina.

Fu bandita una gara per la realizzazione di una imbarcazione della lunghezza di 82 piedi (24,73 metri), con due motori diesel in grado di permettere una velocità superiore ai 25 nodi. Vincitore della gara risultò il Cantiere Italcraft di Gaeta. L’imbarcazione, dal nome ufficiale “Men 209”, venne impostata nel cantiere dei fratelli Mario e Sergio Sonnino Sorisio, nei primi mesi del 1971 e venne consegnata alla Marina nella primavera dell’anno seguente. Costruita in modo classico, con triplo fasciame di mogano, carena a V profondo, riusciva a planare senza ausilio di flaps e con due motori CRM DS18, della potenza complessiva di 2700 cavalli; superò le prove di accettazione con una velocità prossima ai 30 nodi. I maestri d’ascia che seguirono la costruzione, Roberto Scanu e Almerindo Lescarini, sono attualmente soci del Cantiere Navale di Gaeta. Navalcostarmi con i suoi delegati, un colonnello coadiuvato da un esperto di vasca navale, seguì la costruzione del mezzo, mentre un colonnello del 2° reparto curò la parte elettronica.

Quest’ultima in particolare richiese molta attenzione, in modo che la stesura dei cavi ed il potenziamento degli apparati di bordo non interferisse con il sistema di “intelligence” elettronico che era lo scopo primario del mezzo. Io fui una sorta di capitano di armamento nel periodo di ultimazione del Men. Gli arredi iniziali erano un po’ spartani, ma negli anni seguenti sostituii varie cose e riuscii a comprare vari oggetti, dando al mezzo quell’eleganza necessaria.

Può dirci se nel periodo in cui Lei ha comandato il Men si sono verificati eventi strani o particolari?

Be’, più di uno. Una volta, in un porto straniero abbiamo avuto una visita della Guardia di Finanza locale e nella cabina armatoriale, dove erano celate le apparecchiature, gli agenti hanno cominciato a battere sulle paratie e sul soffitto: il sottufficiale radiotelegrafista (che figurava essere un amico dell’armatore) e che era presente sbiancò così vistosamente che temetti svenisse. La cosa, complice l’arrivo di un caffè, passò inosservata, ma devo dire di aver temuto il peggio.

Un episodio simile si è avuto in un altro porto straniero, dove siamo stati obbligati a sostituire vari apparati. Quando gli ultimi due rack (contenitori) erano già a bordo, si sono presentati due doganieri che mi hanno chiesto cosa contenessero i due grossi scatoloni: sono riuscito a dire in modo naturale che erano due nuovi frigoriferi e sono stato creduto.

Un’altra volta, ricordo che era il mese di aprile (cioè fuori stagione), e ci trovavamo in Grecia. Siamo rientrati tardi da un’uscita in cui dovevamo fare la messa a punto e la taratura delle apparecchiature. C’era vento teso ed un po’ di mare formato ed una motovedetta della Guardia Costiera locale ci affiancò ordinandoci di seguirla in porto. Eseguii prontamente l’ordine e, mentre procedevo, fermai un motore per guadagnare tempo e per trovare una giustificazione che rendesse credibile la presenza di tante persone a bordo. C’erano infatti un colonnello del 2° reparto e tre tecnici elettronici che feci passare per personale della ditta costruttrice dei motori. Dovevo poi risolvere un problema: uno dei tecnici, per lo spavento provocato dalle ingiunzioni impartite col megafono ed i riflettori puntati su di noi, non riusciva ad uscire dal bagno ed era molto agitato. Gli venne aperta la porta e calmato per fargli riacquistare un comportamento normale. Una volta ormeggiati, abbiamo avuto la visita a bordo, che fu abbastanza fiscale, con molte domande. Giustificai il tutto con dei problemi agli invertitori, che non funzionavano bene. Mi venne ritirato il “Transit Log”, che è il documento che permette di circolare nelle acque greche. Mi venne restituito il giorno dopo e nell’occasione mi venne detto che ci avevano fermato perché era stato scorto in mare un grosso scatolone avvolto dalla plastica e ci avevano preso per contrabbandieri. Questi episodi sono accaduti nei primi due anni di attività.

Ha mai avuto paura?

No, paura no, nemmeno nei frangenti sopra descritti. Devo dire di essere però sempre stato in tensione, sia per i problemi connessi all’operatività del mezzo (essere in grado di riparare un’avaria o sostituire un pezzo usurato), non essere scoperti e seguire da vicino la vita di tutti quelli che erano imbarcati con me per evitare che un piccolo errore potesse compromettere la missione. Ho usato spesso un subacqueo che avevo a bordo per verificare di non avere niente attaccato in carena. Sarà stato un eccesso di zelo, ma sarebbe stato facile farci saltare in aria! I tempi erano molto diversi da ora. L’essere riuscito ad amalgamare i miei uomini i quali, pur sottoposti ad una rigida disciplina sotto un’apparente libertà formale e con i quali mi intendevo con uno sguardo, è forse la cosa che più mi ha riempito di soddisfazione. La lettera che uno di questi, molto lunga, mi ha scritto anni dopo quando non esisteva alcun motivo legato al servizio, è uno dei ricordi più cari che ho, più importante anche di altri riconoscimenti che ho avuto.

Il pensiero di raggiungere gli obiettivi si sposava perfettamente col cercare di evitare di fare la figura del cretino, ma questo era un problema personale, prima di altri fini.

Devo anzi dire che con un Capo del mio reparto sono entrato anche in contrasto, non facendo cose che non condividevo, quale quella di avere l’uniforme a bordo o di recarmi in un dato porto quando avevo un problema ad un gruppo elettrogeno e pochi denari. Forse era anche un problema di mancanza di fiducia e di stima da parte mia, ma ero e sono fatto così.

Preferivo avere la stima dei miei uomini. L’aver inquadrato bene l’uomo, che al momento abbozzò per rifarsi quando non aveva più bisogno di me, è un riscontro di quanto bene l’avessi capito.

Successi riportati?

Nel periodo 1972-1976 riportammo successi notevoli di vario livello, ma il più significativo per importanza lo ottenemmo nel giugno 1974, quando avevamo a bordo quali ospiti due ignare infermiere australiane in vacanza in Europa. Dopo giorni di plottaggio elettronico di due unità sovietiche maggiori che erano alla fonda, che non aveva prodotto alcun risultato, quando queste salparono, le seguii e di lì a poco registrammo dall’incrociatore una particolare emissione radar ignota ma ricercata da tutte le marine europee ed americana. Fortuna, certo, ma anche intuizione, resa possibile da quella libertà di spostamento per la quale mi ero battuto e che ero riuscito ad ottenere. La partenza delle due unità la ricavammo dalla variazione del rilevamento degli strumenti di ricerca. In questa, come in tutte le altre occasioni, i “bersagli” erano fuori del nostro orizzonte e preferivo tenere spento il radar. Per il successo operativo riportato, l’equipaggio del Men 209 ricevette dal Capo di Stato Maggiore dell’epoca, l’ammiraglio di squadra Gino De Giorgi, un elogio. Personalmente, fui molto felice, non solo per essere ricevuto dal Capo della Marina, quanto perché l’uomo, che aveva rimesso in piedi la Marina con la legge navale, non abbondava certo nei riconoscimenti. Era più facile ricevere un rimprovero!

Comandante, ha avuto personaggi a bordo?

Sì. Nel 1972 l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di squadra Giuseppe Roselli Lorenzini, che volle visitare il Men nelle acque di Santa Marinella, accompagnato dall’ammiraglio Luigi Cacioppo che era capo del 2° reparto e dal mio superiore diretto. Nello stesso anno un uomo che sarebbe diventato famoso, l’allora capitano di corvetta Umberto Guarnieri, oggi a capo della Marina Militare.

Lo imbarcai nel porto di Almeria per una missione che si svolse nel mare di Alboran. In quel porto spagnolo, noto per l’ambientazione dei films “Spaghetti Western”, c’è un grande cartello che dice: “Almeria, el lugar donde el sol pasa l’invierno”. Era autunno, ma abbiamo avuto due giorni di pioggia torrenziale, da alluvione, per intenderci!

Con i suoi uomini si è rivisto?

Sì, con alcuni ho contatti telefonici abbastanza frequenti, con altri meno, ma sono informato. Di tutti ho un ricordo meraviglioso. Lei pensi che il motorista e l’elettricista in porto diventavano dei perfetti camerieri, mentre il nocchiere si trasformava in un cuoco capace di prelibati e raffinati manicaretti. Questo è stato possibile facendo frequentare a questi ragazzi un corso intensivo presso un noto ristorante romano. Uno dei tecnici radar era un abile subacqueo. I tecnici facevano vita da “armatori”, pur assicurando un servizio che prevedeva due collegamenti radio giornalieri con traffico cifrato quando in porto ed un ascolto continuo in mare. I collegamenti servivano ad aggiornare la situazione delle navi sovietiche da battaglia presenti nel Mediterraneo, come a preavvertirci degli ingressi o delle uscite delle stesse dal “Mare Nostrum”.

Io dovevo collegarmi quotidianamente con Roma ed in tempi in cui mancavano i telefonini; spesso passavo la serata o alla ricerca di un telefono o nella ricerca della linea. Una vita dura, sia per le famiglie che non ci vedevano per sei mesi e che ricevevano nostra posta da Roma (il pacco delle lettere veniva mandato attraverso il canale diplomatico al Ministero che provvedeva poi ad affrancarle ed imbucarle). Un lavoro molto soddisfacente ma poco remunerato, a causa forse di un budget limitato. La cifra extra che percepivamo era veramente esigua ed era spesso spesa per far fronte a quella vita di rappresentanza che le circostanze richiedevano. L’anno del successo abbiamo fatto venire a bordo anche le mogli per una settimana, ma sono convinto che, pur sapendo di larga massima quale fosse il nostro lavoro, ancora oggi non sappiano esattamente cosa facessimo. Mi viene in mente che già nel 1928 Camper & Nicholson costruì per Sir Mortimer Singer Astra una barca della classe J, al cui interno vi era un passaggio segreto, dietro la libreria, per recarsi indisturbato nell’attiguo alloggio dell’amante.

La nostra era un’attività piena di lunghe attese: sia quando aspettavamo il passaggio dai Dardanelli o da Gibilterra delle navi da battaglia sovietiche sia quando in mare mascheravamo i nostri lunghi stazionamenti con delle battute di pesca con tanto di canne al traino. Una volta, con un forte meltemi (un vento estivo simile alla bora che nelle Cicladi si alza con il sorgere del sole abbonaccia con il tramonto), siamo stati per una settimana alla fonda nella rada dell’isola di Milo (Grecia). Uno dei problemi del Men, credo mai risolto, era quello di stare in sicurezza alla fonda. Il problema era dovuto al non poter appesantire troppo la prora con molta catena e alla grande “vela” dovuta alle alte sovrastrutture. Spesso sono dovuto restare con un motore acceso per potermi spostare quando l’ancora arava. Rimasi pertanto meravigliato di constatare che il Men, alla ruota, era come inchiodato, su di un fondale di una decina di metri. Quando cominciai a salpare l’ancora, questa non voleva saperne di risalire. Risolvemmo il problema con l’aiuto del subacqueo che provvide a togliere un bello strato di melma che ricopriva le marre. Poi, aiutandomi con i motori, riuscii a salpare. Il fango che aveva ricoperto l’ancora era caolino, la materia usata per le ceramiche.

Ricorda i nomi del suo equipaggio?

Certamente, e li dirò in successione temporale: Bruno, Ugo, Mario, Vittorio, Gaetano (Nino il cuoco), Carlo, Gaetano, (Nino radiotelegrafista), Franco, Primo, Andrea, Bruno, FruFru, Fefè, Augusto, Antimo. Forse è il caso che cerchiamo il modo di ritrovarci!

Comandante, un’ultima domanda: di cosa si occupa adesso?

Ma di barche, naturalmente!

Articolo di
Giorgio Taldini

Pubblicato su Nautica 453 di gennaio 2000