Il dentice ha caratteristiche strutturali simili agli altri pesci della famiglia degli sparidi, ma per quanto riguarda ambiente e comportamenti fa storia a sé. Vediamone gli aspetti di maggiore rilevanza che possono farlo conoscere ai meno esperti.

  • E’ il più grosso rappresentante della sua famiglia potendo raggiungere ed anche superare, sebbene in via assolutamente eccezionale, il peso di 15 chili;
  • deve il suo nome ai quattro pronunciati denti canini rivolti all’indietro dei quali si serve per afferrare al volo le prede di cui si ciba;
  • come quasi tutti i pesci ha un innato istinto gregario; ma di regola i branchi non sono composti da un nu-mero ec-cessivo di esemplari, specie quando la taglia comincia ad aumentare;
  • è presente, sembra in via esclusiva, nelle acque mediterranee caratterizzate dalle condizioni tipologiche subito appresso indicate;
  • vive d’abitudine sul fondo: normalmente a 12-35 metri nella stagione più temperata, a 60-80 metri nella stagione fredda; può pertanto considerarsi un pesce costiero o semicostiero;
  • il suo habitat consueto è costituito da formazioni rocciose con dislivelli non necessariamente accentuati, meglio se prossime a praterie di posidonia;
  • solo raramente, e soprattutto nei periodi della buona stagione, si stacca dal fondo in branchi che per l’occasione risultano sempre numerosi e forma il cosiddetto “montone”, non si sa se per cibarsi di pescetti che stazionano più in alto, ovvero per esigenze connesse al ciclo riproduttivo;
  • è catturabile in traina principalmente nelle acque limpide e pulite delle isole maggiori e minori (eccellenti quelle della Sardegna) nonché nella fascia litoranea continentale ove si incontrano coste precipiti e/o secche di una certa consistenza; penalizzati pertanto in partenza i bacini centro-settentrionali dell’Adriatico occidentale;
  • è carnivoro e si nutre di organismi di piccola e media taglia che stazionano sul fondo o che, incautamente, vi si avvicinano: menole, tanute, castagnole, occhiate, fragolini, aguglie, costardelle, sugarelli, ecc.; è ghiottissimo di triglie, calamari e cefalopodi in genere;
  • il suo sistema di caccia è essenzialmente basato sull’agguato: si nasconde dietro scogli, cigliate, rilievi, barriere algacee e, non appena la preda transita nelle immediate vicinanze, fa uno scatto fulmineo per addentarla; di solito, se l’attacco non riesce, tutto finisce lì, in quanto la tecnica dell’inseguimento non gli è congeniale;
  • possiede in misura notevole uno spiccato senso di territorialità, tale da indurlo non di rado a “fiondarsi” sugli esseri estranei che scorge nella sua zona allo scopo di allontanarli, magari solo a spinte (alias “a musate”); ciò trova conferma nel fatto non infrequente che resta allamato con parti esterne del corpo alle esche trainate, specialmente se artificiali munite di ancorette multiple;
  • a differenza del praio, con il quale viene spesso confuso, attacca volentieri le esche trainate; ma, a seconda delle stagioni, ora preferisce quelle naturali, quasi sempre vive, ora invece si fa incantare solo da quelle artificiali;
  • è stato recentemente riconosciuto dall’IGFA come pesce sportivo suscettibile di record per classi di lenza fino alle 20 libbre;
  • le sue carni, dulcis in fundo, sono ricercatissime dai buongustai.

I tempi e i luoghi della traina
Sulla base delle nozioni appena esposte, dovremmo esserci già fatta un’idea sulla pesca e sulle relative modalità. Occorre però scendere nel merito. Cominciamo con i tempi e con i luoghi.
E’ ovvio che il periodo più proficuo per la traina è quello che va dalla tarda primavera all’autunno inoltrato, quando cioè il nostro dentuto antagonista si porta su fondali non superiori ai 30-35 metri ove non è difficile far scendere le esche rimorchiate. Infatti, il primo problema che ci si presenta è proprio quello di far lavorare queste esche nella zona preferenziale, ossia quasi a contatto con il fondo; fra poco affronteremo l’argomento affondatori di lenza. Non è però da escludere la possibilità di realizzare catture anche in inverno, specie all’inizio di questa stagione quando le acque non sono ancora divenute gelide. Sempre in tema di tempi, giova precisare che, nell’ambito dei periodi stagionali sopraindicati, gli orari propizi sono quelli prossimi al sorgere e al tramonto del sole e, spesso molto di più, quelli dello zenit pieno; il che ha una spiegazione logica: con il sole a picco o quasi il dentice – che come abbiamo visto staziona “raso terra” – ha la possibilità di scorgere meglio le esche che gli passano sopra. Circa i luoghi è evidente che i migliori ai fini della traina sono costituiti dai fondali rocciosi compresi fra i 15 ed i 35 metri, con frequenti variazioni di quota. Questi salti sono buoni anche se di non rilevante entità; ciò è dimostrato dal fatto che le abboccate, di solito più frequenti sui bordi o sui cigli delle secche, non mancano (o addirittura qualche volta sono più frequenti) sui pianori ampi ed estesi che costituiscono il “cappello” delle secche stesse; questo però solo nel caso che su detti pianori vi siano posti adatti all’agguato come buche, rilievi, anfratti con dislivelli anche inferiori al metro. Resta comunque confermato che, a prescindere dalle accennate variazioni limitate di quota, le possibilità migliori le avremo nel momento in cui le nostre esche transiteranno in uscita, ma soprattutto in entrata, suibordi esterni delle secche costiere o semicostiere. Per i dentici, come del resto per tutti gli altri predatori, vi sono, nelle singole zone marittime adatte, punti più o meno circoscritti nei quali, nel corso degli anni, le catture sono costantemente più probabili che altrove. Per la individuazione di questi “salvadanai” potremo avvalerci soltanto delle esperienze nostre e dei nostri amici meno “abbottonati”.

I due tipi di traina
La traina al dentice può essere praticata con esche naturali, assai meglio se vive, ovvero con esche artificiali. Questi due tipi di traina non sono compatibili fra di loro: drasticamente o l’uno o l’altro.In genere si pesca con il vivo in estate inoltrata, in pratica da luglio a novembre, e con artificiali da maggio a tutto giugno. Queste indicazioni hanno un valore puramente indicativo anche e soprattutto perché, nella nostra penisola che abbraccia ben 10 paralleli, le condizioni climatiche e conseguentemente le temperature subacquee, sono soggette a variazioni notevoli.

Con il vivo occorre andare molto piano (uno o due nodi) mentre con gli artificiali bisogna avvicinarsi, talvolta superandoli, ai quattro nodi.Abbiamo quindi:
– una traina lenta o lentissima con esca naturale;
– una traina relativamente veloce con esca artificiale.
La scelta dell’uno o dell’altro sistema dipende essenzialmente dalla stagione; è da tener comunque presente che, in traina lenta, è possibile far scendere senza eccessive difficoltà le esche in prossimità del fondo ove, come abbiamo visto, il dentice ha la sua residenza anagrafica abituale. Non dovremo poi dimenticare che le nostre esche naturali potranno essere prese in considerazione, oltre che dal dentice, da grosse e scatenate ricciole, o lecce, le quali richiederanno attrezzature pescanti piuttosto robuste; mentre, trainando con gli artificiali, la potenza delle attrezzature stesse potrà essere assai ridotta in quanto gli unici clienti alternativi potranno essere in pratica soltanto palamite e lampughe, quando e dove ci sono.

Gli affondatori
L’affondamento delle lenze in traina può ottenersi con uno dei seguenti sistemi:

  • con i piombi amovibili inseriti, anche in serie multipla, sulla lenza madre;
  • con i fili autoaffondanti in guaina di dacron o metallici (monel e similari);
  • con il “piombo guardiano”;
  • con il downrigger che è un congegno concepito per l’impiego di zavorre molto pesanti: le cosiddette “palle di cannone”.

Considerata la elevata profondità di pesca richiesta per la traina al dentice escluderei subito i fili con guaina piombata che affondano molto poco; come pure escluderei (non tassativamente però) i piombi amovibili i quali, anche se ben scaglionati sulla lenza madre, appesantiscono troppo la parte immersa dell’attrezzatura. Ci restano quindi il monel, la palla di cannone e il piombo guardiano. Tutti e tre i sistemi vanno bene per la traina lenta con esca naturale; per la traina veloce con gli artificiali dovremo escludere il piombo guardiano.
Il monel affonda, per ogni decametro immerso, di 3 metri a 1 nodo e dim 0,70 a 4 nodi.
La palla di cannone – che di norma pesa dai 3 ai 7 chili – può viaggiare molto più in basso.
Sia il monel che la palla di cannone vanno di volta in volta impostati per una determinata profondità che potremo peraltro modificare aumentando o diminuendo:
– la velocità della barca;
– il metraggio della lenza immersa o del cavetto metallico che sostiene la palla filato.

E’ comunque sempre consigliabile perdere, una volta tanto, qualche ora di tempo e fare con la propria barca alcuni test per rilevare con l’ecoscandaglio la profondità che questi due tipi di affondatori raggiungono alle diverse andature. Con il monel occorrerà applicare sullo stesso una serie di segnalini distanziati 50 metri l’uno dall’altro e fatti con cotone di diversi colori ben annodato e ulteriormente fermato con un goccio di colla. Con il downrigger non avremo invece bisogno dei segnalini in quanto basterà annotare i dati fornitici dal contametri di cui è fornito l’apparecchio.
Per stabilire la profondità alla quale lavorano il monel e la palla occorrerà:
– piazzare un piombino amovibile a spirali di 20-30 grammi all’estremità del monel e tenere d’occhio la canna; quando il piombino tocca il fondo il vettino della canna si muove per effetto di piccole ma percettibilissime oscillazioni;
– osservare il braccio di sostegno del downrigger che, anch’esso, quando la palla sfiora il fondo è scosso da inconfondibili vibrazioni.Ai valori così ottenuti dovremo poi aggiungere, se useremo come esca pesci finti autoaffondanti, i coefficienti di affondamento relativi ad ogni singolo modello.
Naturalmente le prove di affondamento in parola dovranno essere effettuate procedendo in linea retta e su fondali puliti e in piano.Con il piombo guardiano non sono necessarie prove preventive in quanto il piombo stesso (dai 3 agli 8 etti) legato una ventina di metri a monte dell’esca alla lenza madre con un fine spezzone di nylon (0,25-0,30) lungo un paio di metri, toccherà il fondo sempre prima dell’esca naturale; e, dato che questa tecnica comporta la necessità di tenere continuamente la canna in mano, non avremo difficoltà ad accorgerci dell’impatto e a recuperare subito un po’ di lenza per prevenire eventuali “arroccamenti”.

Le attrezzature pescanti
Per il dentice andrebbe benissimo una attrezzatura (canna, mulinello, lenza madre) abbastanza leggera diciamo nell’ordine delle 8-12 libbre.Ma in pesca, come già accennato, ci sarà la possibilità di trovarci impegnati con soggetti assai più grossi e combattivi del dentice: grosse lecce e soprattutto grosse ricciole che, nel 99% dei casi, si porterebbero via tutto realizzando uno “scippo” in piena regola. Quindi: attrezzature da 20-30 libbre quando useremo esche naturali; da 8-12 libbre in tutti gli altri casi.
I terminali, lunghi intorno ai 20 metri, saranno sempre in nylon: 0,50 o anche 0,40 con gli artificiali, 0,60-0,70 con le esche naturali; sarà bene che lo 0,50 e più ancora lo 0,40 siano doppiati per 15-20 centimetri a monte dell’esca onde scongiurare il pericolo di eventuali tranciature causate dalla poderosa dentatura del dentice.

Fra le esche vive daremo la preferenza a quelle che potremo catturare noi stessi: aguglia, costardella, sgombro (che però riusciremo a mantenere in vita solo per qualche ora), occhiata, sugarello, cefalo, seppia, calamaro che in vasca alimentata con acqua di mare restano vive e vitali anche per più di una giornata. Per la triglia viva, che è senza dubbio il boccone di gran lunga preferito dal dentice, dovremo prendere accordi con qualche pescatore di tramaglio: il che, lasciatemelo dire, è tutt’altro che facile.

Le esche naturali morte che offrono accettabili possibilità in fatto di rendimento, a condizione che siano molto fresche, sono il calamaro, la seppia e l’aguglia.Per l’innesco del vivo useremo uno spezzoncino di nylon dello 0,60-0,70 pressappoco della stessa lunghezza del pesce o del cefalopode di cui disporremo, armato con due ami a occhiello corti o leggermente storti del n.4/0.
Il primo amo, con funzione traente e non di rado anche catturante, sarà inserito dal basso verso l’alto nella parte anteriore estrema dell’apparato boccale del pesce o del sacco del cefalopode; il secondo invece andrà introdotto dall’alto verso il basso ed appena sottopelle in prossimità della coda del pesce, ovvero fra i tentacoli del cefalopode. Questa montatura va fatta per linee esterne quanto più corta è possibile in rapporto alla necessità di non ostacolare il naturale moto natatorio dell’esemplare impiegato. Il collegamento fra montatura di innesco e terminale avverrà sempre attraverso una robusta girella.L’innesco del “morto” sarà realizzato con le modalità sopra descritte facendo però passare il filo all’interno del corpo mediante un ago lungo 20-25 cm. Ricordiamo che all’aguglia morta bisogna sempre spezzare la spina dorsale in almeno due punti allo scopo di farla navigare con movimento abbastanza flessuoso; e che i cefalopodi di una certa grandezza, diciamo di oltre 20 cm, lavorano meglio se appesantiti con un piombo di 30-50 grammi piazzato nella parte anteriore del sacco.
Per le esche artificiali la scelta, se vogliamo veramente pescare, è praticamente obbligata: pesci finti (di gran lunga meglio i Rapala) con paletta metallica di 9, 11, 13, 14 e 18 cm. Sulla base delle mie personali statistiche ultraventennali, il Rapala più catturante per il dentice è il 14 cm. Di norma, i colori più graditi dal nostro sparide sono il famoso testa rossa, nonché l’arancione, il giallo, il verde chiaro in tonalità varie ma sempre con striature dorsali nerastre (RH, GM, RT, ecc.).

L’assetto di pesca
Traina con il monel. Useremo due canne laterali divaricate al massimo con lenze filate a distanze diverse per cercare di evitare che i lunghissimi fili metallici vengano a contatto fra loro creando imbrogli inestricabili. Una delle due esche, quella che avremo mandato più lontano, lavorerà vicino al fondo e, ovviamente, avrà maggiori probabilità di essere attaccata dal dentice; l’esca più a corto potrà invece interessare maggiormente ricciole, lecce e palamite. Di solito il monel imbobinato nel mulinello ha la lunghezza delle confezioni standard reperibili in commercio: 200 yards equivalenti a 183 metri. Può quindi accadere che, pur sbobinando tutto questo filo, non si riesca a far navigare l’esca abbastanza a fondo; in tal caso potremo guadagnare qualche metro inserendo sul cuscino di lenza, in prossimità della congiunzione con monel, un piombo amovibile di 5-7 etti.

Traina con il downrigger. Come prima cosa, con la barca a lento moto, manderemo a mare l’esca, il terminale e almeno una sessantina di metri di lenza madre (dacron o nylon). Dopodiché inseriremo la lenza madre stessa nell’apposita pinzetta della palla e faremo scendere questa, piano piano, alla profondità voluta; quindi, operando con il mulinello, faremo in modo che la lenza sia tesa al massimo; di conseguenza la canna risulterà leggermente flessa all’indietro ma si addrizzerà di scatto quando il filo, in seguito all’abboccata, andrà temporaneamente in bando per tornare poi a curvarsi dopo pochi secondi. A questo punto avremo il vantaggio e la soddisfazione di dedicarci al recupero senza alcun corpo interposto fra noi e la preda ferrata. E’ possibile, anzi quando ci sono più persone a bordo è senz’altro consigliabile, mettere in pesca una seconda canna; il filo di questa andrà agganciato al cavetto metallico che sostiene la zavorra qualche metro al di sopra della stessa con una pinzetta apposita o anche con un semplice elastico da cancelleria.In ogni caso, non appena si verificherà la ferrata, occorrerà provvedere al rapido salpaggio della palla in quanto, per effetto delle evoluzioni del pesce, la lenza potrebbe andare ad imbrogliarsi con il cavetto metallico.

Traina con il piombo guardiano. Con il piombo guardiano dovremo usare una sola canna che, come abbiamo visto, sarà tenuta costantemente in mano, preferibilmente con il manico inserito nel bicchierino della panciera.L’angler si piazza in prossimità del quadro di poppa mentre lo skipper, guidando la barca, presta continua attenzione ai dati rilevati dall’ecoscandaglio. L’angler cede lenza fino a quando avverte l’urto della zavorra sul fondo; dopodiché recupera qualche metro di filo e va avanti così ripetendo l’operazione di limitato saliscendi a brevi intervalli.
Quando lo skipper l’avverte che il fondale sta salendo o scendendo recupera o cede lenza più o meno velocemente a seconda del valore della variazione di quota. Al momento dell’incoccio occorre ferrare prontamente dando una breve strattonata alla canna; pronti però a cedere subito un po’ di filo se non si sente resistenza in quanto, ad esca ferma o quasi, può verificarsi un secondo attacco da parte del pesce.
Il dentice, una volta allamato, tenta subito la fuga per cercare scampo negli anfratti del fondale; è pertanto importante sollevarlo sollecitamente; man mano che sale l’azione di difesa va attenuandosi fino a cessare completamente quando, per il rapido cambiamento di quota, la vescica natatoria si dilata fino al punto di sospingere “a pallone” verso la superficie la nostra preda che, alla fine, si deporrà di fianco ed inerte sull’acqua; questo cedimento può anche non verificarsi se la profondità ove si è verificata la cattura è inferiore ai 20 metri. Nel caso in cui la resistenza opposta risulti particolarmente tenace conviene allentare un po’ la trazione facendo compiere alla barca ampi giri centrati sul punto di immersione della lenza.

Andare piano con la barca
Con gli entrobordo e gli entrofuoribordo di una certa potenza, dei quali è dotata la maggioranza dei moderni fisherman in circolazione, la velocità minima varia dai 3 ai 4 nodi; e ciò anche se, in caso dimotorizzazione binaria, si usa uno solo dei due propulsori. Senonché, per trainare con il vivo occorre scendere quantomeno intorno ai 2 nodi.Le soluzioni possibili sono 4:

  1. applicare ai motori i trolling drive che sono invertitori ad olio i quali, quando vengono sottoposti ad una pressione ridotta mediante appositi congegni, riduce la forza di attrito con l’apparato motore e, correlativamente, i giri dell’elica. Soluzione ottima se adottata in partenza in sede di costruzione della barca; adottabile senza eccessivi problemi se gli invertitori già montati sono ad olio; ma sconsigliabile per gli alti costi ove la barca sia già fornita di invertitori meccanici;
  2. utilizzare un fuoribordo, applicabile all’occorrenza sulla plancetta di poppa, dai 6 ai 50 cavalli di potenza. Anche questa soluzione ha le sue pecche: il fuoribordo, di solito, deve essere montato e smontato ogni volta che si esce e si rientra; richiede una manutenzione particolare e, di norma, un combustibile diverso da quello impiegato per la propulsione principale;
  3. installare un motorino a nafta (lo Spingo) che è completamente autonomo rispetto al o ai propulsori principali, può essere collocato in qualsiasi punto della barca (al limite anche a prua) in quanto la trasmissione del movimento all’elica è realizzata mediante tubolazioni ad olio come quelle usate nella pesca professionale per il salpaggio delle reti e dei parangali. Questo sistema noto sotto il nome Spingo, è valido soprattutto per le barche la cui propulsione principale è affidata ad un solo motore. Ma, anche qui, c’è il problema dei costi che assommano in ogni caso a diversi milioni;
  4. procurarsi due secchi di robusto materiale plastico di capienza pari a circa 4 litri per ogni metro di lunghezza della barca, imbragarli bene con cime adeguate alla loro grandezza e calarli in zona centro poppiera uno a destra e uno a sinistra della barca stessa. I risultati sono sorprendenti come ho constatato di persona: con la mia barca di 8 metri motorizzata con due VM turbodiesel di 140 HP cadauno, non riuscivo, utilizzando un solo propulsore al minimo, a scendere sotto i 3 nodi. Con i secchi navigo tranquillamente sotto i 2 nodi.