IL PERCHÈ DELLE PRUE ROTONDE

Sia nelle imbarcazioni a vela, sia in quelle a motore, siamo abituati a prue slanciate e sottili che mostrano con evidenza la loro funzione di tagliare l’acqua per rendere efficiente la propulsione.

In realtà ci sono moltissime imbarcazioni, specie quelle da lavoro o tradizionali, che non hanno per nulla una prua tagliente e acuminata. Anzi sfoggiano con sussiego delle belle prue rotonde, spesso ornate, con molto buongusto, da due begli occhi (di cubia).

Ora non è certo possibile che imbarcazioni che derivano dall’esperienza di anni, se non di secoli, siano “sbagliate” nella concezione, e che quelle forme che si ritrovano in ogni parte del mondo e in diversissime applicazioni non corrispondano ad una reale esigenza marina.

Infatti di barche-navi di questo tipo ce ne sono praticamente dappertutto, dai barconi per la sabbia che venivano trainati dai cavalli dalla sponda dei fiumi e dei canali, ai “bragozzi” veneti, e anche dai funerei “topi” che a Venezia svolgono normalmente tutti i compiti di trasporto leggero di derrate e altri carichi.

E ancora hanno prue praticamente rotonde, e talvolta anche rincagnate per le necessità di curvatura delle tavole, le barche olandesi, e in fondo se si considerano le sole carene, senza tutte le altre sovrastrutture, anche le navi a vela dal ‘600 in poi.

E alla fine appartengono pure a questa grande famiglia le lunghe “peniche” che solcano i grandi fiumi europei, spingendo enormi carichi, con prue appena appena arrotondate, ma talvolta addirittura quasi piatte.

Ora, poiché tutto questo non può essere frutto solo di abitudini o necessità costruttive, vediamo di capire il perché di una forma che ad una analisi superficiale sembra sbagliata.

È noto a tutti, o quasi, che la causa prevalente di resistenza in barche pesanti (anche questo termine avrebbe bisogno di essere esaminato) è legata al moto ondoso prodotto dalla spostamento stesso dello scafo. Infatti nella navigazione le onde si accompagnano alla carena, continuando a obbedire alle leggi fisiche sulle onde stesse, che stabiliscono che ad ogni velocità l’onda ha una certa lunghezza, in forza di questa relazione:

Velocità dell’onda = 1.25 x lunghezza d’onda.

Esprimendo la velocità dell’onda in metri/secondo e la lunghezza in metri; per coloro che si esprimono… con i piedi (e cioè con misure anglosassoni) il fattore 1.25 diventa 1.34.

Si chiama “velocità critica” quella per cui un’imbarcazione o una nave si trova “incastrata” tra le due onde di prua e di poppa, e quindi non riesce ad aumentare la sua velocità, in quanto risulta affossata e risucchiata dal cavo tra le due onde.

Quindi l’unico sistema per poter aumentare – seppure di poco – la velocità sta nell’allontanare il più possibile la prua dalla poppa, e quindi adottare una carena squadrata in entrambe le estremità.

Ecco quindi la ragione per cui le imbarcazioni lente “debbono avere” forme assai tozze ed in un certo senso “cilindriche”, ossia formate da una parte a sezione costante, che si raccorda a prua e a poppa con una parte arrotondata.

Per esprimere in modo razionale questo fatto si ricorre ad una interpretazione matematica, e cioè introducendo il concetto di Coefficiente Prismatico, la cui definizione è la seguente:

Coeff. Prismatico = Vol. di carena / Sez. maestra x LWL

Le imbarcazioni “lente” e ad estremità piene debbono presentare quindi un coefficiente prismatico elevato, mentre quelle più sottili ed affusolate hanno valori proporzionalmente inferiori.

Ad esempio le barche a vela moderne hanno coefficienti prismatici compresi tra 0.48 e 0.55, un intervallo assai ristretto.

Al contrario le navi e le barche da lavoro hanno valori del coefficiente prismatico spesso assai alto, ed in relazione alla loro velocità relativa: valori compresi tra 0.6 e 0.8 sono del tutto normali. Quindi nelle barche niente avviene per caso, anche per il fatto che secoli di esperienza hanno guidato architetti e mastri d’ascia: se le barche lente e pesanti hanno estremità tozze in luogo delle aggressive prue dei leggeri yacht a vela, questa è una scelta dettata sia dall’esperienza, sia dalla “scienza”.